Già cantori del non-ancora
domenica 28 gennaio 2018

«Dammi da mangiare
dammi da bere...
Fame è misterioso
richiamo
alza e abbassa regge lascia
ti reggo mi lascio.
Dammi l’acqua
dammi la mano
che siamo,
nello stesso mondo»

Chandra Livia Candiani, Dammi da mangiare


Dio ascoltò il grido di Anna e «si ricordò di lei» (1 Samuele, 1,19), come si era ricordato del suo popolo schiavo in Egitto, dopo la prima preghiera collettiva della Bibbia (Esodo 2, 23). Il Dio biblico è un Dio che sa ascoltare, tutti, ma soprattutto le vittime. Gli idoli sono sordi e muti perché sono morti. YHWH è vivo perché ha un "orecchio" e può ascoltare, e può essere risvegliato dal suo sonno, ridestato nella sua disattenzione, mentre siamo sulla barca e c’è tempesta. Davanti a un Dio che sembra sordo e che non risponde alla nostra preghiera, la metafora del sonno è quella che consente a Dio di continuare a essere vivo, a esserci. Si può sempre continuare a pregare nel tempo del silenzio di Dio finché crediamo che si è solo addormentato e che potrà risvegliarsi per il nostro lamento. Smettiamo di credere e quindi di pregare quando ci convinciamo che il cielo sia sordo perché, semplicemente, è vuoto.

Dio può essere vivo anche quando non risponde, e la Bibbia ci dice che dobbiamo rendergli il sonno difficile con le nostre grida. La preghiera-lamento di Anna riuscì a risvegliarlo, ed è caparra e speranza per tutte le altre preghiere di donne e di uomini che non riescono a risvegliare Dio, per tutte le persone che hanno pregato come lei, ma i bambini non sono nati, o non sono guariti. Anche loro, anche noi, possiamo sempre usare le parole di Anna per continuare a credere e a sperare. Fino alla fine, quando forse si risveglierà per abbracciarci nell’ultimo volo fiducioso, accompagnato dal nostro ultimo "eccomi". La fede è viva e vera anche se è fiducia in un Dio che dorme, che noi cerchiamo di svegliare. Per tutta la vita.


Dopo aver pregato nel tempio di Silo, Anna «se ne andò per la sua via, mangiò e il suo volto non fu più come prima». Elkanà «si unì a sua moglie Anna, che concepì e partorì un figlio e lo chiamò Samuele» (1,19-20). Nato il bambino, il padre si recò di nuovo al tempio per il pellegrinaggio annuale diventato anche di ringraziamento: «Anna non andò, perché disse al marito: "Non verrò, finché il bambino non sia svezzato e io possa condurlo a vedere il volto del Signore; poi resterà là per sempre"» (1,22). I genitori insieme confermano il voto di Anna («se darai alla tua ancella un figlio maschio, io lo offrirò al Signore per tutti i giorni della sua vita e il rasoio non passerà sul suo capo»: 1,11), ma la madre si prende la libertà di trattenerlo con sé per il periodo dello svezzamento (almeno tre anni). Per questa scelta Anna non chiede permesso né al marito (che comunque il racconto ci mostra favorevole: 1,23), né a Dio, perché appartiene a quelle fondamentali, intimissime scelte che le donne possono fare da sole. Le madri (Anna nella lingua ittita significava "madre") non sono le padrone dei loro figli, ma hanno una autorità naturale e sacra sui loro primi passi, sulla quale né la legge né la religione possono e devono interferire. Questa è stata, e continua a essere, una ricchezza-dono grande ed esclusiva delle donne, che le rende solidali tra di loro e simili prima e oltre le grandi diversità della vita, espressione profonda e fondante della legge della vita.


Arriva poi un giorno quando questa intimità speciale e unica madre-figlio termina. Deve terminare, e il figlio viene generato una seconda volta. In quel giorno c’è bisogno di un amore-gratuità che non è necessariamente presente nella prima generazione. Le madri ci generano mettendoci alla luce e poi ci rigenerano perdendoci per farci capaci di poter fare il nostro dono. Questa seconda nascita assume molte forme. Il testo biblico non ci descrive le emozioni e i sentimenti di Anna - anche se nella narrazione inserisce alcuni dettagli, come questo, delicatissimo, che ci riporta al cuore molte mamme che hanno accompagnato e accompagnano con atti simili i loro figli donati: «Sua madre gli preparava una piccola veste e gliela portava ogni anno» (2,19). Non solo Samuele, Sansone, o Isacco sono figli ridonati dopo averli ricevuti in dono. Per ogni figlio arriva il momento in cui viene "donato al Signore" - e se non arriva sono guai, per i figli e per le madri. Quando i genitori, e le madri in modo diverso e speciale, intuiscono che quel figlio che avevano ricevuto in dono, e che poi hanno "svezzato" e avviato alla vita, deve essere ridonato (che i figli sono tutto e solo dono e provvidenza lo sappiamo tutti, ma soprattutto lo sanno quelle donne, quegli uomini e quelle famiglie che questi doni non hanno ricevuto). Capiscono che i loro figli non sono loro proprietà, e che sono soltanto custodi della loro alba. Che quindi li devono lasciare partire. È anche questo un segno di quella gratuità radicale che è all’origine della vita e delle generazioni: «Il Signore mi ha concesso quanto gli avevo chiesto. Così anche io lascio che mi venga di nuovo richiesto» (1,27-28).


Arrivò quindi il giorno del viaggio di Anna con Samuele, verso il tempio di Silo: «Dopo averlo svezzato, lo portò con sé, con un giovenco di tre anni, un’efa di farina e un otre di vino, e lo introdusse nel tempio del Signore a Silo: era ancora un fanciullo» (1,24). Il tono e l’atmosfera di questo viaggio ricordano da vicino quello di Abramo verso il monte Moria, per ridonare un altro figlio donato a un’altra donna sterile. È nel dono dei figli donati che impariamo e reimpariamo la grammatica dell’esistenza sotto il sole, scopriamo e riscopriamo che tutta la vita ci è donata perché la possiamo ridonare liberamente e gratuitamente. Fino alla fine, quando renderemo quello spirito che ci era stato donato nel primo giorno, e saremo capaci di questa ultima offerta perché c’eravamo esercitati in questa reciprocità primaria per tutta la vita.

Ed è qui che incontriamo il canto di Anna, uno dei più belli di tutta la Bibbia. Un inno meraviglioso, che lo scrittore biblico ha voluto inserire dopo il dono del figlio donato, non quando Anna rimane incinta, né dopo il parto. È il canto della gratuità reciproca. Per poter intonare questi cantici di liberazione e di resurrezione non c’è condizione esistenziale più idonea di quella di chi ha ricevuto tutto e poi tutto ha ridonato. Solo i poveri possono cantare i magnificat: "«Il mio cuore può esultare nel Signore, la mia forza si è innalzata in lui… L’arco dei forti s’è spezzato, ma i deboli si sono rivestiti di vigore. I sazi cercano lavoro per il pane, e gli affamati hanno smesso per sempre di aver fame. La sterile ha partorito sette volte e la ricca di figli è sfiorita… Il Signore rende povero e rende ricco, abbassa e risolleva. Solleva dalla polvere il debole, dallo sterco rialza il povero, per farlo sedere tra i princìpi, fa ereditare loro un trono glorioso» (2,1-8).


La scena del mondo attorno ad Anna non era quella descritta dal suo canto. Nella sua città, nelle altre tribù di Israele, nei popoli Cananei circostanti, nel tempio di Silo da dove innalza la sua lode, i poveri restavano nello sterco, gli affamati (non i sazi) cercavano pane e lavoro (senza trovarli), e non smettevano di aver fame. Il suo è dunque un canto profetico - come quelli di Isaia, come il Magnificat di Maria (che qualche antico commentatore attribuiva a Elisabetta, perché sterile come Anna). E come ogni profezia, è un "già" che indica un "non ancora". Il piccolo Samuele è il "già" di Anna, il suo brano di terra di promessa da cui lei può innalzarsi e scorgere all’orizzonte la terra di tutti dove scorre latte e miele. Qualche "non ancora" di oggi può domani diventare "già" se c’è qualcuno che ora ha la forza di vedere e poi cantare poveri innalzati mentre sono umiliati, saziati mentre hanno ancora fame, ricchi abbassati mentre sono alti e invincibili. Le liberazioni non si compiono se prima non si vedono, pregano, cantano. Ma la profezia ha bisogno del suo piccolo "già", di un già-bambino; e il già-bambino ha bisogno di chi cantandolo gli consente di incarnarsi dentro il "non ancora". Troppi poveri, umiliati, affamati non si innalzano, e troppi ricchi e potenti non si abbassano perché mancano le esperienze del "già", o perché mancano i cantori del "non ancora" Il nostro tempo non soffre tanto per indigenza di "già", ma per una grande povertà di profeti, i soli capaci di vedere e poi cantare che abbiamo bisogno di un "non ancora" più grande di noi, e così capace di generare per i nostri figli un presente migliore del nostro - nessuna generazione può lasciare alla successiva una terra migliore se uccide il "non ancora", se lo abbassa troppo, o lo schiaccia sul proprio "già"


Anna, Maria, i profeti tengono viva la promessa senza rimpicciolirla, ci aiutano a non confondere i fiumi di Babilonia con il Giordano, e mentre cantano il loro Magnificat, ci invitano a domandare: sentinella, quanto manca al giorno? Finché troviamo energie del cuore e della mente per cantare questi magnificat, e finché restiamo abbastanza poveri per cantarli con verità e dignità, possiamo sempre sperare che la notte abbia fine, e che l’aurora ci sorprenda. La notte diventa infinita quando smettiamo di cantare con Anna, quando le non-resurrezioni nostre e delle altre vittime ci convincono che non c’è alba, che non c’è sentinella, che non c’è più nulla da domandare, né un Dio da svegliare. La Bibbia ci ha custodito la possibilità dei magnificat, ma non può cantarli al nostro posto: per intonarli c’è bisogno della nostra voce, e prima ancora della nostra fede che quelle parole possono essere, dentro le nostre notti.

Perché anche in queste notti infinite possiamo imbatterci, magari per caso, con l’inno di Anna. E senza chiederle il permesso, prendere in prestito le sue parole per ricominciare a pregare, a cantare, a sperare. Non c’è preghiera più bella di quella sussurrata da chi un giorno ha smesso di pregare per il troppo dolore, e in un altro giorno, ormai senza parole, ha ritrovato le sue parole smarrite nelle parole della Bibbia. Ha sentito che erano state scritte soltanto per lui, per lei; che erano lì, ad attenderci, tutto dono, nel tempo infinito dell’avvento. E la parola continua a diventare carne.

l.bruni@lumsa.it

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