venerdì 19 novembre 2021
Lo scandalo nascosto del «Betting exchange», azzardo legale in cui chiunque può lanciare un’offerta e fare da banco: 2,2 miliardi in gioco, il Tesoro incassa lo 0,97 per mille
ornano a farsi sentire le lobby delle attività connesse alle puntate legali ma dannose per la società. Una pratica entrata in vigore nel 2014 che ha preso rapidamente piede

ornano a farsi sentire le lobby delle attività connesse alle puntate legali ma dannose per la società. Una pratica entrata in vigore nel 2014 che ha preso rapidamente piede - Archivio Avvenire

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Da ogni miliardo di euro che va in scommesse tra privati – scommesse legali, s’intende – lo Stato trattiene meno di un milione. Sembrerebbe una notizia-scoop, ma non proviene dal giornalismo investigativo. Solo da una lettura attenta degli atti e delle carte, tutt’altro che segreti. Carte delle statistiche sui giochi d’azzardo. Si può nasconderne il rilievo, è vero, al Parlamento e all’opinione pubblica. Ma fino a un certo punto. Ebbene, in mezzo alla cinquantina di strade di accesso – in modo 'sicuro e legale' – al regno della fortuna industrializzata, ve n’è una che consegna allo Stato davvero le briciole, ma tanto minuscole che per scovarle serve la lente d’ingrandimento. Parliamo del business che si forma, per l’appunto, nelle 'scommesse tra privati', denominate Betting Exchange. Sono regolate da concessione pubblica. In questo settore il Tesoro incamera molto meno del denaro che, a titolo di mancia, viene elargito dai clienti al croupier di un casinò...

Le 'scommesse tra privati' sono state deliberate nell’anno 2013, quando un decreto-legge 'sui sistemi di gioco diretti tra giocatori' ha tolto l’intermediazione di un allibratore centrale. Tutti, anche una persona singola, possono lanciare un’offerta di betting (scommessa) e presentarsi da sé come 'banco'. Si sceglie un evento sportivo, si propone una quota per la posta in palio. Si presenta allora la scommessa online, e si raccoglie l’adesione. Il tutto avviene attraverso un portale internet che fa incontrare domanda e offerta, ed è predisposto da una società che si è aggiudicata la concessione di Stato. La pratica ha preso le mosse nel 2014. Dapprima era poco conosciuta, e restava davvero nelle dimensioni di una nicchia. Arriva via via a diffondersi, tanto che lo scorso anno ha superato il volume di 2 miliardi e 195 milioni di euro.

Di questo fiume di denaro, quanto va allo Stato? Appena lo 0,97 per mille, ovvero 2 milioni e 130mila euro! Un decimo dell’imposta di bollo applicata alle normali transazioni in vari campi dell’economia. La mancia del croupier. Dal canto suo, il concessionario che intermedia il Betting Exchange incamera una somma quadrupla (8,5 milioni, sempre nel 2020). Per l’Erario un risultato è invisibile; per il privato concessionario rappresenta un bel tesoretto, corrispondente alle commissioni per garantire versamento della puntata e erogazione della vincita. Ma qual è l’interesse pubblico a consentire così un’infinità di transazioni che fanno girare il denaro?


Sono stati valutati i rischi connessi all’invio e ritorno continuo di soldi? E come si fronteggia l’impiego di questo canale per il riciclaggio?

Sono stati valutati i rischi connessi alla sequenza – nelle 24 ore – di invio e ritorno continuo di soldi? E come si fronteggia l’impiego di questo canale per il riciclaggio? Banale esempio: un malfattore detiene il ricavato dalle rapine, e deve renderlo 'pulito'. Attraverso un complice, scommette perciò su un evento. Vince, e quindi pone il premio ottenuto a giustificazione del denaro sporco in suo possesso, mescolandolo con il ricavato delle molte scommesse. Nella tabella si può rapidamente apprezzare il rilievo del flusso di denaro e, per contro, l’evanescenza delle garanzie di legalità pur a fronte di un rischio sociale rilevantissimo. E così quella risibile mancia elargita allo Stato-croupier rappresenta l’umiliazione oltraggiosa, che l’inflazionato gioco d’azzardo, 'legale e sicuro', rinnova ogni giorno dell’anno. A tale dispregio dell’interesse pubblico, pochi, troppi, pochi reagiscono. Si sta approssimando il varo della manovra del bilancio dello Stato 2022. Le lobby sono mobilitate e di fronte trovano, troppo spesso, il sorriso acquiescente di molti che siedono nei banchi del parlamento e di qualcuno nello stesso governo.

La sottosegretaria Vezzali, martedì, è tornata a propugnare la sospensione – per due anni – del divieto della pubblicità per le scommesse sportive, esaudendo peraltro l’auspicio del presidente del Coni, Malagò, che così si era espresso lo scorso settembre. Verso la maggioranza di deputati e senatori si fa insistente la pressione delle grandi concessionarie. Viene riproposto un espediente per disinnescare regolamenti comunali e leggi delle Regioni che limitano l’esposizione dei cittadini al rischio dell’azzardo. Alle amministrazioni locali e regionali viene prospettata la partecipazione ai ricavi della tassazione sui giochi a soldi. A patto che, si capisce, si limitino ad approvare regolamenti e leggi regionali benevoli e non disturbanti. Il sistema industriale dei giochi d’azzardo ha urgenza di rilanciare il consumo da parte della clientela più interessante, ovvero di quella incrollabilmente fidelizzata alla spesa: perché abitudinaria. E in dipendenza patologica. A tale scopo occorre rilanciare l’immagine e la reputazione del 'gioco pubblico'. Da quasi quindici anni, del resto, il più grande gruppo mondiale del gambling – eccellenza fiorita sul suolo italiano e poi emigrata verso stati più benevoli nel prelievo fiscale – finanzia una dozzina di centri tra università e istituti di ricerca. Ha sponsorizzato associazioni dei clinici delle dipendenze per promuovere il marketing del 'gioco responsabile': in modo tanto smaccato che una di esse ha subìto l’estromissione dall’Osservatorio sull’azzardo presso il ministero della Salute.


Le lobby sono mobilitate e di fronte trovano, troppo spesso, il sorriso acquiescente di molti che siedono nei banchi del parlamento

Mentre scorre questo fiume di denaro, s’incappa anche in infortuni di tipo terminologico. Come accaduto lo scorso lunedì, quando è stato esposto il report di una ricerca su 'gioco e legalità'. L’istituto commissionario della Lottomatica non ha utilizzato nemmeno una terminologia appropriata. Ricorre più volte nelle pagine del sondaggio, infatti, il lemma 'ludopatia'. Una trita espressione: censurata anni fa dall’Accademia della Crusca, rigettata dai clinici del settore, bandita infine dalla legge che, dal 2018, impone l’uso in ogni atto dello Stato (legge, regolamento, circolare, comunicati) della dizione univoca e tecnica di Disturbo da gioco d’azzardo. Si preferisce usare un lemma più breve? Si usi almeno 'azzardopatia'. Un bel mix tra ignoranza e malafede fa risorgere appunto 'ludopatia' che, come l’araba fenice incenerita, si rialza subito, scuotendo le sue penne.

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