E' l'ora di svuotare gli arsenali e "riempire i granai"
martedì 9 agosto 2022

Undici anni, tanto era il tempo che i Paesi ricchi si erano dati per raggiungere l’obiettivo di sostenere i Paesi più poveri con 100 miliardi all’anno nella loro lotta contro i cambiamenti climatici. L’impegno era stato assunto nel 2009 e si poneva come traguardo il 2020, ma alla fine l’obiettivo non è stato centrato. Lo certifica l’Ocse tramite un rapporto appena pubblicato: la cifra raccolta nel 2020 si è fermata a 83 miliardi, che diventano 70 se ci limitiamo ai finanziamenti di parte pubblica: governi e banche multilaterali.

Dopo decenni durante i quali scienziati e gruppi ambientalisti hanno gridato nel deserto, oggi finalmente anche la politica sta però capendo che la crisi climatica è grave e che bisogna intervenire con la doppia strategia dell’adattamento e della mitigazione. Adattamento per realizzare le opere di tipo agricolo, urbano, infrastrutturale, necessarie ad evitare, o quanto meno attenuare, i danni dovuti ai cambiamenti climatici. Mitigazione per introdurre tutte le trasformazioni tecnologiche, produttive e di consumo utili a ridurre le emissioni di anidride carbonica che sono alla base dei cambiamenti climatici.

Secondo i calcoli del World Economic Forum, l’organizzazione che convoca annualmente l’incontro di Davos, per il prossimo decennio servirebbe una cifra annuale pari a 5.700 miliardi di dollari per perseguire in maniera efficace questo doppio obiettivo a livello mondiale. Con quale suddivisione fra Nord e Sud del mondo non è indicato, in ogni caso si tratterebbe di somme che i Paesi più poveri non potrebbero sostenere da soli. E anche se potessero, non sarebbe giusto che lo facessero, perché il danno non lo hanno fatto loro, ma i Paesi ricchi.

Dal 1850 al 2011 l’umanità ha prodotto qualcosa come 1.500 miliardi di tonnellate di anidride carbonica attribuibili per il 27% agli Stati Uniti d’America, mentre l’attuale Unione Europea se ne intesta un altro 24%. La Cina, che oggi è il maggiore emettitore mondiale di CO2, da un punto di vista storico ha contribuito per il 13%. Quanto all’Africa, la sua partecipazione è stata appena del 2%. Eppure assieme al Sud Est asiatico è il continente che sta pagando di più per i cambiamenti climatici. In particolare il Sahel dove l’80-90% della popolazione vive ancora di agricoltura e pastorizia. Prolungati periodi di siccità fanno perdere i raccolti, mentre fanno morire le greggi di fame e di sete. La Fao informa che nel 2021, a causa di eventi climatici estremi, Niger e Mauritania hanno perso fra il 30 e il 40% dei propri raccolti di cereali.

Per di più i cambiamenti climatici esasperano i rapporti fra contadini e pastori. Per secoli i pastori si sono spostati per il Sahel in cerca di pascoli. In tempo di piogge regolari le migrazioni avvengono secondo tempistiche compatibili con i ritmi agricoli. Ma la siccità costringe i pastori a sostare più a lungo nei luoghi con corsi d’acqua, creando conflitti con gli agricoltori locali. Quando la vita si fa difficile, l’inevitabile conseguenza è l’abbandono della propria casa nella speranza di ritrovarla altrove. Secondo l’Onu, nei prossimi anni nel Sahel si potrebbero avere 85 milioni di sfollati a causa dei cambiamenti climatici. Persone che cercheranno rifugio principalmente nei territori confinanti, ma più di qualche giovane istruito e maggiormente intraprendente cercherà rifugio anche assai lontano pur dovendo affrontare, se non interverrà un nuovo e serio governo dei flussi migratori, tutte le difficoltà della traversata irregolare. E così si chiude il cerchio fra migrazioni e cambiamenti climatici.

Nei nostri ordinamenti cominciamo a fare riferimento al principio "chi inquina paga", ma ce ne dimentichiamo quando tocca a noi applicarlo in ambito internazionale.

Tanto più che se andiamo a vedere come stiamo applicando la nostra stentata solidarietà in ambito climatico, ci rendiamo che solo in parte l’attuiamo sotto forma di contributi a fondo perduto. Dei 70 miliardi di dollari messi in campo nel 2020 dalle istituzioni pubbliche, solo 18, ossia il 26%, sono stati dati sotto forma di donazione. Il rimanente 74% è stato offerto sotto forma di prestito, rischiando di trasformare ciò che definiamo solidarietà in un boccone avvelenato.

È risaputo infatti che il Sud del mondo, e l’Africa in particolare, è oberato di debiti che non sa come pagare. Il ricevimento di altri soldi sotto forma di prestito rischia di trasformare in catastrofica una situazione già critica. Ciò che fa più male è che tanta tirchieria si manifesta solo quando si tratta di spendere in solidarietà o per finalità di giustizia. Allora si trova sempre qualche motivazione per giustificare la nostra avarizia: la crisi economica, le nostre difficoltà finanziarie, i nostri problemi interni. Motivazioni che magicamente scompaiono quando si tratta di finanziare le spese di morte. Allora i soldi saltano subito fuori, come dimostra l’aumento di spese militari a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. La spesa militare complessiva dei paesi Ocse è passata da 1050 miliardi di dollari nel 2015 a 1280 miliardi nel 2020. Basterebbe il 7% di ciò che i Paesi ricchi spendono in armamenti per finanziare, integralmente, e sotto forma di dono, il fondo promesso ai Paesi del Sud del Mondo per le spese di adattamento e mitigazione imposte dai cambiamenti climatici. Come diceva Sandro Pertini è proprio arrivato il tempo di «svuotare gli arsenali e riempire i granai», cioè i fondi per il clima.

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