sabato 28 marzo 2020
L’emergenza ci ricorda che il 'gioco' di cui abbiamo bisogno è simile a un concetto più sano di lavoro: qualcosa che attraverso di noi agisca sulla realtà trasformandola
Avere tanto tempo libero ma nessun tempo di festa
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Quello che sta accadendo oggi, a causa della pandemia da coronavirus, ci sconcerta: molti di noi non possono lavorare, devono prendere permessi o ferie obbligatorie, sono dunque forzatamente liberi dal proprio lavoro. Potremmo dire che godono di una grande quantità di tempo libero. Eppure chi si trova in questa situazione, pur cercando di fare buon viso a cattivo gioco, non riesce a rallegrarsi; e non è solo perché rimanere in casa rende più difficile usare bene del tempo a disposizione: c’è qualcosa che ci manca e che è collegato proprio al fatto stesso di lavorare. Ce lo provano le tante piccole grandi testimonianze che incontriamo, il sollievo di chi è autorizzato ancora a lavorare, come la farmacista che oggi mi dice: «Mi sento davvero grata di poter fare questo lavoro».

Chi può lavorare, oggi, sente in questo il riconoscimento gratificante della propria utilità, perché ciò di cui si occupa serve alla collettività. Professioni come quella medica, che stava sempre più soffocando in adempimenti burocratico–tecnologici, ritrovano la loro natura: quella del supporto di cura ai più fragili, dell’accompagnamento coraggioso e generoso della sofferenza. I medici, e con loro tutti gli operatori sanitari, insieme alla grande fatica avvertono anche una nuova, legittima fierezza; la percezione certa della propria utilità giustifica un impegno non monetizzabile, e mostra con chiarezza quanto per gli esseri umani il dare contenga in sé la propria ricompensa. Chi di noi non può lavorare, sente che gli manca la possibilità di impegnare energie, pensieri, vitalità, in una attività che è orientata a qualcosa che si trova fuori di sé: qualcosa che riguarda il dare piuttosto che il prendere. Chi invece può lavorare, ma solo da casa, avverte da un lato la grande e nuova opportunità che questo rappresenta, ma sente anche che gli manca il confronto diretto e la vicinanza concreta e fisica degli altri, con cui di solito condivide spazi di lavoro senza dare importanza al valore di questa prossimità. Tutti, indistintamente, sentiamo la nostalgia di sentirci utili, e iniziamo a capire che il tempo del lavoro non è solo il tempo di una fatica necessaria, ma spesso povera di senso, quanto piuttosto un tempo nel quale mettere a frutto, giorno dopo giorno, le nostre migliori capacità e investire le nostre energie in modo consapevole e positivo, in mezzo agli altri.

Due cose caratterizzano l’essere umano fin dalla più tenera infanzia: il bisogno di condividere e il bisogno di agire in senso trasformativo sulle cose. Azioni come riempire, svuotare, costruire, distruggere, aprire, chiudere, esplorare, rappresentano bene l’attività spontanea del bambino già nel primo anno di vita. Queste at- tività che producono piacere sono ciò che noi definiamo “gioco”; quello che le rende interessanti non è tanto l’oggetto in sé con le sue caratteristiche, quanto piuttosto la possibilità di produrre un effetto, un cambiamento, attraverso la propria azione su di esso o attraverso di esso. Il gioco è il modo che ogni bambino sano ha per avvicinare e conoscere il mondo: è un fare che origina dalla curiosità e che ci porta ad agire sulla realtà per scoprirla, capirla, modificarla grazie a un apporto che è personale e perciò sempre creativo. Inoltre, ciò che rende ancora più interessante e piacevole l’attività di gioco è la possibilità di condividerlo: un bisogno così specificamente umano che l’attitudine alla condivisione viene considerata dai neuropsichiatri infantili come un segno importante di salute mentale.

Dobbiamo però aggiungere una seconda caratteristica che viene attribuita in modo specifico al gioco: il gioco non ha come obiettivo diretto un utile, un guadagno, un risultato prestazionale; il tempo del gioco è tale se è un tempo di libertà e gratuità. Al gioco si contrappone in questo senso l’idea che abbiamo comunemente del lavoro, nel quale l’energia è rivolta a uno specifico fine (tra cui, per primo, quello di produrre un reddito) ed è associata molto spesso allo sforzo e alla fatica: il lavoro è in questo senso un obbligo, una necessità cui non possiamo sottrarci; il nostro sforzo maggiore sarà dunque quello di renderlo il più possibile “produttivo”, perché possa darci un utile da spendere nel tempo che il lavoro non risucchierà.

In questa logica, si lavora perché è necessario e perché si deve guadagnare per vivere, ma il tempo “vero”, quello in cui esprimersi e godere della vita, non è il tempo del lavoro, ma piuttosto quello del non–lavoro, ed è qui che concentriamo ormai le nostre attese e le nostre speranze di benessere. La contrapposizione culturale tra gioco e lavoro fa sì che, divenuti adulti, separiamo in modo sempre più netto il “tempo lavorativo” e il “tempo libero”, che diventa a questo punto lo spazio in cui possiamo collocare non tanto il gioco quanto piuttosto il divertimento: qualcosa che, come dice la parola, ci porta da un’altra parte (divertire viene da de–vertere, volgere altrove), ci allontana per un po’ dal peso che proprio il lavoro rappresenta, insieme a tutte le preoccupazioni quotidiane. Nella vita adulta il concetto di gioco, con la sua caratteristica essenziale (essere l’espressione della nostra capacità di agire creativamente sulle cose) sembra dunque scomparso: da un lato c’è il lavoro, necessario, ma privo di un senso proprio, e dall’altra il divertimento, come riposo dalla fatica e aiuto a non pensare.

Gli eventi di questi giorni sembrano rimettere in discussione questo approccio, aprire pensieri nuovi. Ci diventa più evidente che, in continuità con il bambino che siamo stati, abbiamo sempre strutturalmente bisogno di agire creativamente sulla realtà: abbiamo bisogno di fare cose che abbiano un potere trasformativo nei confronti del mondo. Non ci basta “divertirci”: abbiamo bisogno di “giocare”, e il gioco di cui abbiamo bisogno come adulti è molto simile a un concetto più sano di lavoro: qualcosa che attraverso di noi possa agire sulla realtà trasfor-mandola. Abbiamo bisogno che ciò che facciamo possa cambiare almeno un po’ il mondo, portando la nostra impronta personale e unica. Questo è il nostro mandato, il nostro contributo possibile alla creazione; è la scintilla che ci fa simili al Padre, unico vero Creatore: noi non possiamo creare le cose dal nulla, ma possiamo dare una forma personale a quello che tocchiamo. Possiamo farlo in tanti modi, e lo facciamo ogni volta che, invece di subire passivamente quello che ci troviamo a dover fare, siamo capaci di assumerlo in modo attivo, diventandone protagonisti. Per questo non ci sono lavori in assoluto non–creativi: perché la creatività non è mai nell’attività, ma piuttosto nell’attore.

Essere capaci di vivere così il lavoro lo tiene anche nei giusti confini di tempo e ci permette di alternarlo in modo più equilibrato con il riposo; il lavoro vissuto bene non ha più bisogno di “tempo libero” ma piuttosto di tempo “festivo”: un tempo pensato non solo per “fare” cose finalmente divertenti, ma anche e soprattutto per coltivare le relazioni e per rinforzare i legami. Un tempo per incontrare gli altri, per celebrare fianco a fianco i piccoli grandi riti che fanno di noi una comunità. Un tempo che il cuore umano non cessa mai di desiderare, e che soprattutto oggi, in queste circostanze drammatiche, ci manca: oggi che abbiamo tanto “tempo libero” e nessun tempo di festa.

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