venerdì 21 aprile 2017
Caccia agli indecisi con il rebus dell'astensione. Tutto lascia prevedere che si arriverà al ballottaggio del 7 maggio. L'esito elettorale avrà ricadute notevoli per tutto il Vecchio continente
La Francia al voto, grande equilibrio tra i quattro sfidanti
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Da quando esiste la Quinta Repubblica si ripete che l’elezione presidenziale finisce sempre per restituire ai francesi un’immagine coerente del Paese e una rotta plausibile per gli anni a venire, al di là di ogni faglia latente: il fossato atavico fra le luci di Parigi e la Francia rurale, la facciata atlantica ancora prospera contro l’Est disindustrializzato cosparso di contrade che arrancano, il crogiolo multietnico erede di una storia migratoria plurisecolare. Ma questa volta, a poche ore dal primo turno di domenica, l’omogeneizzatore politico presidenzialista inventato dal generale Charles de Gaulle appare logoro, a giudicare dallo scarso morale dell’elettorato, fortemente tentato dall’astensionismo, secondo tutti gli istituti demoscopici. «Il finale di campagna conferma la diffidenza degli elettori verso i candidati», ha titolato Le Monde per riassumere una situazione inedita.

Di fronte a questo mix di abulia e avversione, tutti i principali candidati hanno cercato in ogni modo di conferire uno spessore “storico” alle proprie promesse. Proprio le massime di Charles de Gaulle sono così rimbalzate di bocca in bocca: quella dell’ex premier neogollista François Fillon, certo, ma anche quelle dell’ultranazionalista antieuropea e xenofoba Marine Le Pen, del giovane “liberal-socialista” Emmanuel Macron e persino del “tribuno rosso” anticapitalista Jean-Luc Mélenchon. È proprio questo l’inatteso quartetto di big dato in alto nei sondaggi, fra gli undici candidati in lizza. Una quaterna sulla quale un anno fa, nel complesso, nessuno avrebbe scommesso neppure un vecchio franco fuori corso. Ma nel calderone della campagna si sono via via riversati lo tsunami di delusione suscitato dal mandato del presidente socialista François Hollande, le paure della stagione degli attentati jihadisti, l’effetto indiretto della Brexit, oltre ai malcontenti trasversali legati alla crisi e al ridimensionamento del generoso “welfare alla francese”, divenuto insostenibile per via di un debito pubblico ormai vicino al 100% del Pil.

Q
uesto cocktail imprevisto ha finito per falcidiare una generazione di volti ben noti che speravano ancora di dire la loro: a destra, soprattutto l’ex presidente Nicolas Sarkozy e l’ex premier Alain Juppé; a sinistra, il già citato Hollande (primo presidente della Quinta Repubblica a non ricandidarsi dopo un primo mandato) e l’ex premier Manuel Valls. Come davanti a uno specchio che rovescia le immagini, a guidare il plotone degli ex outsider catapultati sulla ribalta è l’atipico centrista 39enne Macron, fino al 2014 praticamente sconosciuto, dato che non è mai stato eletto neppure a livello comunale. Secondo l’ultimo rilevamento dell’istituto Harris interactive, il candidato che ha creato l’anno scorso dal nulla il movimento “En marche!” (“In cammino!”) godrebbe del 25% di consensi, davanti alla Le Pen (22%) e agli inseguitori Fillon e Mélenchon, entrambi al 19%. Difficile immaginare un candidato dal percorso più eclettico di Macron: ex assistente personale del grande filosofo protestante Paul Ricoeur, ex alto funzionario uscito dall’Ena (Scuola nazionale d’amministrazione), ma anche ex banchiere d’affari dagli onorari esorbitanti specializzato nelle fusioni acquisizioni, prima del salto in politica nella legislatura socialista che volge al termine, come consigliere nell’ombra di Hollande, poi come ministro dell’Economia. Ma il telegenico Macron, che seduce i giovani e risulta simpatico anche alle francesi di età avanzata (anche perché ha sposato una sua ex insegnante di lettere, nonostante 23 anni di differenza d’età), tiene a precisare di non essere "né di destra né di sinistra".

Per lui, non è più questa l’opposizione che conta, ma quella fra la vetero politica e il suo progetto destinato a «far entrare la Francia nel XXI secolo», come ha spiegato pure nel bestseller
Rivoluzione. Insomma, gattopardescamente, per far rimanere la Francia sui vecchi binari della prosperità, bisogna che tutto cambi. Ma i detrattori lo accusano di non essere in grado di trascinare dietro di sé una solida maggioranza parlamentare. Macron, che ha ricevuto ieri una “telefonata amicale” pure dal presidente americano uscente Barack Obama, è il più europeista dei candidati e pure quello che è riuscito a rastrellare gli appoggi più eterogenei. Lunedì scorso, per l’ultimo grande comizio parigino al Palasport di Bercy gremito di circa 20mila persone, si è circondato di un ex centrista storico come François Bayrou, ma anche di neogollisti convertiti al “macronismo” e socialisti di peso come il ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian e il sindaco di Lione, Gerard Collomb.

Nell’ascesa folgorante del “ragazzo”, come viene definito sprezzantemente dietro le quinte dai rivali, pesa certamente pure il bonapartismo sempre latente nel dna politico transalpino. Ma secondo i politologi, ancor più decisiva è la voglia dei francesi di “punire” il duopolio tradizionale neogollisti-socialisti screditato negli ultimi tempi anche da scandali finanziari tanto a sinistra, come nel caso dell’ex ministro Jerôme Cahuzac (condannato per fondi neri in paradisi fiscali), quanto sul fronte opposto, dove le ultime successioni di rivelazioni imbarazzanti hanno riguardato un rivale diretto dello stesso Macron: Fillon, travolto dal “Penelope-gate” (presunte mansioni parlamentari fittizie spartite a moglie e figli). Per il momento la Le Pen sembra invece pagare meno il caso dei presunti falsi portaborse del Fronte nazionale all’Europarlamento.

Un forte astensionismo potrebbe favorire proprio la candidata estremista, il cui bacino elettorale potenziale sarebbe più “sicuro” del proprio voto, rispetto a quello più “fluttuante” di Macron. Quest’ultimo ha così ordinato in extremis una mastodontica campagna di telefonate destinata a 6 milioni di nuclei familiari, proprio per promuovere l’accesso alle urne. Appelli nello stesso senso sono giunti pure da Hollande. E l’ultima successione d’interviste televisive agli undici candidati, trasmessa ieri sera – durante il quale è avvenuto l’attacco –, ha preso di mira proprio i potenziali disertori delle urne, così come gli incerti. Questi ultimi corrisponderebbero a circa un quarto dell’elettorato, secondo gli ultimi rilevamenti. Il voto degli elettori cattolici potrebbe risultare decisivo, come mostrano tante manovre recenti di seduzione dei principali candidati. Nonostante gli oltre 50mila agenti mobilitati domenica in una Francia post-attentati ancora sottoposta allo stato d’emergenza, la sicurezza non ha rappresentato l’unico piatto forte dei dibattiti delle ultime settimane. Nella scia della Brexit molto spazio è stato accaparrato pure dal ruolo della Francia nell’Europa, così come dalla riforma delle regole europee.

S
e l’ultranazionalista anti-immigrazione Le Pen promette l’uscita della Francia dall’Ue e dalla Nato, con gli obiettivi anche di un ritorno al franco e di un colpo fatale alle regole di Schengen, l’europeista Macron vorrebbe proporre un parlamento e un ministro finanziario dell’Eurozona. Fillon propende per un direttorio intergovernativo della stessa Eurolandia e un forte partenariato Ue-Russia (al posto delle sanzioni), mentre Mélenchon vuol tentare di “rifondare” l’Europa, agitando come alternativa lo spauracchio della “Frexit”. Gli ultimi sondaggi sembrano scongiurare la tanto paventata ipotesi di uno “scontro dei populismi” Le Pen-Mélenchon al ballottaggio del 7 maggio. Ma se resta difficile prevedere la fisionomia precisa della nuova Francia che uscirà dalle urne, sono invece già in tanti a scommettere sulle ricadute notevoli che il voto avrà per tutto il continente.

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