Assad e il Daesh: troppi due bersagli
giovedì 13 aprile 2017

La metamorfosi di Trump, inattesa, si è consumata in poche ore: rappresaglia contro il regime di Damasco dopo l’attacco chimico di Khan Sheikhun. Una decisione che conferma l’imprevedibilità, la tendenza all’unilateralismo, nonché la strategia 'alla giornata' del presidente americano (fino a pochi giorni fa, il destino di Assad non era più oggetto di discussione). La vera novità è l’interventismo, assai lontano dalla propaganda isolazionista di «America first». Ma ora, come faranno gli Usa a tenere insieme la lotta al sedicente califfato con la svolta muscolare contro Assad? Se anche rimanesse un episodio isolato, il raid Usa contro la base militare siriana di al-Shayrat ha già ridisegnato il quadro geopolitico in Medio Oriente: 'grande freddo' tra Washington e Mosca, Ankara di nuovo riallineata ai sauditi contro Damasco, «sostegno totale» di Riad alla «decisione coraggiosa» di Trump.

Nel frattempo, tra Siria e Iraq, il Daesh sta ripiegando, ma la vera sfida, quella politica, è solo all’inizio. La riconquista delle 'capitali' del sedicente Stato islamico, Mosul in Iraq e, prossimamente, Raqqa in Siria, infligge un duro colpo al Daesh e alla territorializzazione dell’idea di califfato. Tuttavia, sarebbe troppo ingenuo pensare che l’insorgenza jihadista sia destinata a riassorbirsi sotto il peso delle sconfitte militari. La cifra dello jihadismo contemporaneo è proprio la sua estrema capacità di adattamento: dalle ceneri di al-Qaeda in Iraq (datata 2004), nacque «Stato islamico nell’Iraq e nel Levante» (Isis/Daesh, 2013), ribattezzato 'Stato islamico' proprio con la presa di Mosul, nel giugno 2014. Ecco perché non bisogna distogliere lo sguardo dal confine siro-iracheno, nonostante sia la costa mediterranea della Siria, feudo del regime, il nodo strategico, e conteso, del Levante, come dimostrano l’attacco chimico prima e il raid di Washington poi. Probabilmente, una parte dei foreign fighters operativi lungo il confine cercherà altri 'santuari' dove combattere il jihad ( Yemen, Libia e fascia del Sahel), mentre la base tribale del sedicente califfato, concentrata fra le regioni di Deir e-Zor, Al-Anbar e Ninive, tornerà alla microinsorgenza locale. Siria orientale e Iraq occidentale, al di là dei confini politici, sono da sempre un unico spazio sociale, una 'terra di mezzo' in cui le tribù hanno sviluppato forti legami familiari ed economici. Sarà dunque necessario prevenire un’altra insorgenza sunnita: prima che per adesione ideologica, è stato a causa della marginalizzazione sociale e politica (dopo la caduta di Saddam Hussein in Iraq, nei decenni di dittatura degli Assad in Siria) che molti sunniti hanno sostenuto, oppure non ostacolato, le formazioni jihadiste.

A questo proposito, la lezione del 2007 è più che mai utile, anche per Trump. In Iraq, gli statunitensi riuscirono a ridurre, temporaneamente, la violenza jihadista coniugando il surge (aumento di truppe) del generale Petraeus alla sahwa, ovvero la mobilitazione tribale dei sunniti contro al-Qaeda. Ma troppi di quei miliziani sottratti alle sirene jihadiste non furono mai reintegrati nelle forze di sicurezza regolari: molti subirono ritorsioni dai qaedisti o tornarono all’insorgenza, in un circolo vizioso ancora attuale. Pertanto, occorre organizzare il dopo-Daesh': altrimenti, un nuovo 'califfato', magari con nomi e leader diversi, potrebbe manifestarsi da qui a pochi anni. Il punto è che questa prevenzione deve partire dall’inclusione sociale e politica delle comunità arabo sunnite di Siria e Iraq nei rispettivi Stati. Ma dopo il raid Usa, il progetto appare più che mai utopistico: il negoziato siriano è già ostaggio del nuovo clima di scontro tra Stati Uniti e Russia, come conferma l’incontro Lavrov-Tillerson. All’inizio del mandato, anche George W. Bush aveva tratteggiato un’America lontana dalle crisi internazionali. Poi accade un evento drammatico e inatteso, l’11 settembre 2001, e la sua presidenza cambiò radicalmente. La storia si ripeterà con Trump e la guerra siriana?

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