sabato 20 giugno 2020
La città di Parigi perde abitanti da anni e ora l’emergenza sanitaria ha accentuato la fuga dalla metropoli verso i campi. Non solo una scelta di vita
La Roque-Gageac in Dordogna

La Roque-Gageac in Dordogna - Jebulon / CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)

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Meglio vivere fra i topi di città o fra quelli di campagna? Ai tempi del coronavirus, la questione è riaffiorata con forza nella Francia dei contrasti marcati fra aree metropolitane e rurali, scombussolata dalla pandemia e dai conseguenti mesi di telelavoro obbligatorio, così come dalla stupefacente 'fuga' di centinaia di migliaia di abitanti delle aree urbane verso le campagne. Un libro uscito nel 2019 si è rivelato, un anno dopo, dal sapore premonitore. S’intitola L’essence de la vie. Ils quittent la ville pour vivre de la terre (L’essenza della vita. Lasciano la città per vivere della terra, Arthaud) ed è stato scritto da Bernard Ollivier, famoso per aver coperto a piedi l’antica Via della Seta per 12mila km da Istanbul a Xi’an, in Cina: un’impresa da cui l’autore ha tratto una fortunata trilogia tradotta in Italia da Feltrinelli. L’ultima fatica di Ollivier raccoglie le testimonianze di 31 'neorurali' transalpini che hanno abbandonato il comfort dei servizi di città e persino posizioni professionali di rilievo per lanciarsi nella coltivazione della terra con metodi biologici, spinti dall’amore per la natura e per il buon cibo.

Ancora una carovana di sognatori eccentrici, avevano obiettato all’uscita del volume i lettori più scettici, stilando mentalmente la lunga lista d’inconvenienti pratici e sociali a cui si espongono i 'neorurali'. Delle scelte isolate, o in forte controtendenza, si potrebbe aggiungere. In effetti, quando si guarda al fenomeno delle relazioni città-campagne su scala mondiale, l’Onu ricorda che prosegue l’esodo verso le città, anche se le cose sono non di rado più complicate, soprattutto quando i confini fra città e campagne diventano sfumati. In ogni caso, non solo in Francia, la pandemia ha scombinato le carte. Al punto che i presunti sognatori isolati sembrano oggi, a una fetta dell’opinione pubblica, quasi come dei precursori. Di questi tempi, del resto, un rovello per tante multinazionali, come per la scuola pubblica, è il 'richiamo' verso l’ufficio, o le cattedre fisiche, di migliaia d’impiegati o d’insegnanti alquanto refrattari, dopo essersi abituati in poche settimane alla vita al verde, in residenze secondarie proprie o scovate tramite reti familiari e amicali.

Un dato impressionerà forse i turisti innamorati della Ville Lumière: durante la crisi, Parigi si è svuotata del 17% della sua popolazione, ovvero di quasi 400mila persone, secondo uno studio per la Fondazione Jean Jaurès condotto dal politologo Jérôme Fourquet. A lasciare l’intera regione metropolitana parigina sono stati invece 1,2 milioni di residenti, secondo una stima ricavata dai dati della compagnia telefonica Orange (l’ex operatore pubblico France Télécom). Effettivi che in parte mancano ancora all’appello. Tanto che s’ipotizza già un accentuarsi, in questo 2020, di un fenomeno sorpren- dente: negli ultimi 6 anni, secondo i dati ufficiali, Parigi ha perduto 62.449 abitanti, quasi il 3% della sua popolazione. Nel caso del 7° arrondissement, quello centralissimo della Tour Eiffel, il crollo è stato dell’11%, ma diversi altri rioni centrali hanno perduto più dell’8% di abitanti. Possibile che la romantica Parigi faccia fuggire i suoi abitanti? Le ragioni di questo fenomeno ormai cronico sono molte, come i prezzi alle stelle nell’immobiliare e gli effetti perversi delle aziende specializzate nella locazione turistica d’appartamenti, sul modello dell’americana Airbnb. Ma c’è di più, in un Paese che conserva il mito delle campagne sane e rigeneratrici, pure attraverso i ricordi trasmessi da nonni ed altri ascendenti cresciuti fra i campi. A partire da uno studio commissionato dal Senato, Bernard Ollivier sottolinea che ormai «un abitante di città su due sogna di andare a vivere in campagna, contro uno su tre solo qualche anno fa». Un fenomeno che s’innesta nel più generale ritorno di un 'bisogno' di natura e di paesaggi evidenziato oltralpe da molte ricerche, come quelle commissionate dal Ministero dell’Ambiente al geografo Yves Luginbühl.

Quest’anelito bucolico è certamente favorito pure da certe specificità territoriali transalpine, a cominciare dalle vaste superfici coltivabili disponibili grazie alle quali la Francia è il primo Paese agricolo europeo, in termini di produzione. Per limitarsi ai quattro grandi Paesi continentali a livello demografico, giova ricordare che la densità di popolazione era nel 2018, oltralpe, di appena 106 abitanti per km² (Eurostat), contro 203 abitanti in Italia, 235 in Germania e ben 274 nel Regno Unito. In altri termini, le vaste distese agricole francesi ancora libere rappresentano un’oggettiva tentazione per tanti giovani e meno giovani con il gusto della libertà e una certa fibra imprenditoriale. Ma nonostante queste generose dotazioni territoriali, almeno rispetto ai grandi vicini, anche la Francia ha conosciuto lungo il Novecento un massiccio abbandono delle campagne, analizzato in un controverso ma fortunato pamphlet del 1947 del geografo Jean-François Gravier, il cui titolo è rimasto da allora quasi proverbiale: «Parigi e il deserto francese».

Da decenni, le campagne transalpine fanno gola ai cittadini britannici in cerca di spazi rurali ben più vasti di quelli disponibili al di là della Manica, tanto che si parla scherzosamente di 'Dordogne-shire', ad esempio, per qualificare quei comuni della Dordogna (non lontano da Bordeaux) che contano oggi fino a un terzo d’abitanti d’origine britannica. Più di recente, a manifestare un appetito dai risvolti ben più inquietanti sono stati pure dei conglomerati capitalistici cinesi in cerca d’investimenti terrieri. Ma se le intuizioni di Ollivier sono corrette e certi segnali del periodo di confinamento non mentono, l’ora di un ritorno dei francesi alla campagna potrebbe avvicinarsi. A fine febbraio, la pandemia aveva obbligato gli organizzatori del celebre «Salone dell’Agricoltura», alle porte di Parigi, a chiudere l’evento prima del previsto. Una circostanza che ha poi alimentato nutrite riflessioni. In fondo, ci si è chiesto, la Francia delle campagne ha ancora bisogno dell’annuale 'transumanza' d’armenti verso il cemento parigino per blandire il potere politico centrale e ricordare ai cittadini smemorati o nostalgici che tutto o quasi viene dalla terra? Al posto degli enormi assembramenti in zona fiera vulnerabili ai virus, non sarebbe più coerente invitare al contrario i cittadini a riscoprire dappertutto le vere campagne, ancora così generose, quantunque spopolate da decenni e vittime spesso d’accordi commerciali squilibrati con le catene di supermercati?

Da parte loro, tanti sindaci rurali cercano di approfittare della situazione per ripetere con orgoglio che vivere fra i campi è sano e bello: per le famiglie che aspirano a più spazio, per i professionisti collegati in rete e non più obbligati a recarsi quotidianamente in ufficio, o in generale per chi è stanco degli eccessi urbani, di stili di vita poco salutari, luci e frastuono notturni che perturbano il sonno, cibo ingurgitato di corsa, maggiore esposizione alle epidemie. Nell’eterna querelle fra il modus vivendi urbano e quello bucolico, i campagnoli tornano ad alzare la testa, anche perché nel frattempo si sgretolano in fretta i pregiudizi datati sulle campagne con pochi libri e troppi abitanti dediti alle sbornie. Anzi, certi intellettuali scommettono già su un matrimonio imminente fra mentalità urbana e di campagna. L’ultima casa editrice francese nata sul tema s’intitola Terre urbaine (Terra urbana) ed ha inaugurato il catalogo ristampando un vecchio libro d’Ivan Illich, celebre critico della civiltà delle automobili e del cemento. Per il filosofo Thierry Paquot, all’origine dell’iniziativa, non ci sarà scampo senza un connubio realistico e sostenibile fra gli ideali urbani e rurali, un tempo fieramente contrapposti. A proposito di questa convergenza, un’apparente scorciatoia aveva fatto capolino di recente a Parigi, con la vendita all’asta di un «rustico di campagna» con tanto di vasto orto invaso d’erbacce, a due passi dalla Tour Eiffel: un bene andato alla fine a un ignoto acquirente per circa 35 milioni di euro. Anche se è vero che i sogni non hanno prezzo, ai più occorrerà trovare altre soluzioni, più o meno innaffiate di filosofia. La vecchia querelle fra topi di città e di campagna, in ogni caso, si prepara a vivere nuove puntate decisive. Con l’augurio che non sia più una pandemia ad ispirarle.

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