Anche per il dolore bambino più che mai cura, non morte
venerdì 16 ottobre 2020

Ho sotto gli occhi la lettera che il ministro olandese della salute Hugo de Jonge ha scritto al suo Parlamento per annunciare che verrà regolata la «cessazione attiva della vita» dei bambini da 1 a 12 anni malati terminali.

Cessazione attiva della vita vuol dire che saranno uccisi. Per il loro bene, si capisce, per il loro «migliore interesse», secondo l’ideale eutanasico, di cui l’Olanda è l’avamposto. In quel Paese, l’eutanasia on demand è stata legalizzata nel 2002 e oggi miete il 4 per cento dei morti. È stata poi estesa ai neonati entro il primo anno, e ai minori adolescenti dopo i 12, a specifiche condizioni, rinfocolando ogni volta angosciosi problemi umani.

Adesso è venuta l’ora dei bambini da 1 a 12 anni, finora chiusi in una sorta di fascia grigia dove non si poteva né si può pescare qualcosa che somigli a un consenso. E dunque la loro possibile autorizzata uccisione è un urto profondo dentro l’anima: la morte che si vuole pietosa è in sé violenza sopra il bambino ignaro e indifeso, e innocente, e per giunta piagato da una malattia che lo infragilisce come una vittima.

Non così, non così. È disumano. Poi le spiegazioni del ministro danno conto di casi (cinque o dieci in un anno, dice) in cui il tempo finale della vita del bambino è stato di una sofferenza insopportabile. E introduce dunque un’immagine che strazia, perché il dolore di un bambino torturato dalla malattia terminale percuote la terra e il cielo più del grido di Giobbe. Ma pure questo non determina in chi prende a cuore e a fronte quella tragedia un dilemma tra la vita e la morte, ma provoca a una scelta fra l’amore e l’abbandono. Perché non si tratta di prolungare o di troncare una vita- bios, ma di stare e sostare e restare in abbraccio di una vita- zoè, vale a dire di una persona. La vita è il vivente, l’amore è per lui o per lei.

E lui o lei, ha una dignità, una grandezza sacra che non è disegnata con i criteri del dolore e della morte, e che oltrepassa ogni nostra sopraffazione. La pietà, certo, la pietà. Non possiamo ceder spazio al dolore. Ma c’è appunto tutta una terapia del dolore, doverosa, assidua: E le cure palliative, e gli analgesici di ultima generazione che sono molto potenti. E che sono giustamente e doverosamente impiegabili, quando pur costassero come effetto secondario qualche spicciolo di vita. Ma la scelta radicale, diversa dai protocolli della morte, sta nella persistenza d’una relazione che consola e accompagna, e non espelle né sopprime. Protegge dal dolore. Non dà le spalle quando viene il momento della fine.

Questa lettera del ministro olandese ha tratti di gergo giuridico, dice di volere «maggiori garanzie legali per i medici» che prendono la decisione di porre fine alla vita del bambino. Perché per legge è un delitto, dice, ma per causa di forza maggiore, cioè per il dolore insopportabile del bambino, dovrebbe andare esente da pena. Così è bene scriverlo chiaro; anzi, l’uccisione sarebbe una interpretazione ultima del dovere medico di assistenza.

Ministro, chi è padrone della vita di un bambino? Chi è padrone della sua morte? Nei segreti pensieri che la pandemia va seminando dentro le nostre inquietudini, forse i fantasmi di padronanza sulla vita e sulla morte dovrebbero rifare i conti col mistero che accompagna ogni vita umana, il nostro esser presenti nel tempo inusurpabile che a ognuno è dato in dono. E qualcosa di più sacro ancora: il soffio dello spirito che anima il corpo del bimbo e del vecchio, del sano e del malato, e che non muore e non può essere ucciso.

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