Amnistia e indulto, via amara ma utile per la «fine della notte»
mercoledì 20 maggio 2020

È difficile amare i provvedimenti di clemenza generale. Perché sia l’amnistia (che cancella i reati meno gravi) sia l’indulto (che opera uno sconto di pena per tutti gli altri reati) rasano il prato in modo indifferenziato: tagliando allo stesso modo il filo d’erba buono e l’erbaccia. Non distinguono il grano dal loglio. Livellando i diversi percorsi di recupero dei condannati, negano loro quel trattamento differenziato (affidato ai magistrati di sorveglianza) che è alla base del nostro ordinamento penitenziario. E lasciano spesso le parti offese dei reati cancellati con la pericolosa sensazione di subire un secondo torto.

Eppure: oggi, che dopo l’infuriare più grave della tempesta da coronavirus, cominciamo a vedere la luce, gli operatori della giustizia (avvocati e magistrati) che ogni giorno vivono il processo nelle aule dei tribunali hanno il dovere di anticipare alla politica – nel rispetto della sua autonomia – che l’indomani dell’uscita dal tunnel, qualunque discorso serio e umano sulla giustizia penale dovrà cominciare pronunciando due parole: amnistia e indulto. È inutile intrecciare duelli tra coloro che auspicano amnistia e indulto per motivi umanitari (come “riparazione” al fatto che i detenuti sono spesso ospitati in carceri sovraffollate, in cui è difficile rendere effettiva la rieducazione del condannato promessa dall’art. 27 Costituzione) e coloro che, magari richiamandosi a Beccaria, ritengono «felice la nazione» in cui i provvedimenti di clemenza siano esclusi (senza però dimenticare che per l’illuminista lombardo la clemenza poteva essere esclusa come conseguenza della «dolcezza e immediatezza delle pene»).

Ripeto: oggi, per invocare amnistia e indulto, non è necessario schierarsi per una di queste due opzioni. Qui basti ricordare che, fino al 1992, l’amnistia fu lo strumento per tenere in piedi un sistema in cui convivono obbligatorietà dell’azione penale, processo con tre gradi di giudizio normalmente percorsi senza filtri, tendenza alla “panpenalizzazione”, scarsità di personale amministrativo. Dalla Liberazione al 1990 furono 28 le amnistie che, periodicamente, intervenivano a ripulire gli armadi dei magistrati da pile di fascicoli per reati minori. E ogni amnistia era accompagnata da un indulto che, condonando qualche anno di pena ai condannati definitivi, alleggeriva carceri cronicamente sovraffollate che – fino alla riforma penitenziaria del 1975 – covavano il germe delle rivolte pronte a esplodere in estate.

Poi, nel 1992, riformando l’articolo 79 della Costituzione, si previde che, per concedere l’amnistia e l’indulto, fosse necessaria la maggioranza dei due terzi del Parlamento. Con la conseguenza che, essendo tale maggioranza politicamente irraggiungibile, non vi son più state amnistie.

Soltanto nel 2006 motivazioni assai diverse ma convergenti consentirono la concessione di un generoso indulto, inopinatamente non accompagnato da alcuna amnistia costringendo così i tribunali a lavorare a vuoto; cioè a celebrare, per reati minori, processi che, in caso di condanna, comminavano pene destinate a non essere mai eseguite.

Il risultato della impraticabilità politica dell’amnistia è noto: procure della Repubblica inondate di fascicoli relativi a reati per cui i tribunali non erano in grado di celebrare i processi; prescrizioni frequentissime. Proprio per evitare che la prescrizione arrivasse magari in appello dopo anni di lavoro di magistrati e cancellieri, le procure della Repubblica sono state costrette a una “discrezionalità di fatto” nell’esercizio dell’azione penale, non ufficialmente prevista dalla Legge ma imposta da uno stato di necessità che la Legge creava. E dunque: “scelte di priorità” operate dai pubblici ministeri nella fase delle indagini preliminari; fascicoli relativi a fatti minori “postergati” (vale a dire, lasciati in un armadio in attesa di tempi migliori).

Soltanto la riforma voluta dal ministro Orlando nel 2015 – che ha previsto la possibilità di archiviare un reato minore nel caso di “particolare tenuità” del fatto – ha ridato un po’ di ordine e di criteri legislativi alle scelte “prioritarie” dei pubblici ministeri.

Ciononostante, i processi che i tribunali sono chiamati a celebrare sono sempre troppi. E – come “Avvenire” ha scritto più volte – soltanto una riforma organica dei codici potrà porre rimedio a questa cronica emergenza. Essendo consapevoli di una semplice verità: l’unico modo per rendere meno lenti i processi è dover celebrare meno processi.

Ebbene: se questa è, da anni, l’emergenza quotidiana, dopo la spallata della pandemia la situazione sarà più grave. Per far fronte ai rischi di contagio, i decreti governativi di marzo hanno previsto che, nel periodo di chiusura i tribunali celebrassero solo processi urgenti con imputati detenuti. Tutti i processi con imputati a piede libero già fissati in queste settimane sono stati rinviati. Ciò significa che i processi che si sarebbero dovuti celebrare tra qualche mese (possiamo dire, da settembre in poi) dovranno “far posto” ai processi rinviati. Il risultato, inevitabile, ha una sola parola: ingolfamento del sistema. Rischio che tutti i processi, anche per fatti gravi, subiscano un ulteriore rallentamento, con conseguente pericolo di prescrizione. C’è bisogno di un nuovo inizio.

Quando il motore si imballa bisogna resettarlo. A costo di provocare oggi qualche piccola ingiustizia che servirà però ad evitare, domani, più gravi e generali ingiustizie. Per questo i tribunali devono essere alleggeriti da un carico che rischierebbe di metterli in ginocchio. E ciò vale anche per quei detenuti già condannati a pena definitiva che, in questi mesi, stanno vivendo, tra le mura di un carcere, il timore di un contagio incontrollabile. Anche a loro lo Stato deve saper dire una parola di comprensione e umanità. Così è stato in tutti i passaggi cruciali della storia del nostro Paese, sempre accompagnati da provvedimenti di clemenza. È presto per parlarne in termini di provvedimenti legislativi. Non è presto per cominciare a pensarci.

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