Alle radici del fallimento inascoltata la società civile
mercoledì 18 agosto 2021

Caro direttore,
sono entrato in Afghanistan dal Turkmenistan nel gennaio 2002 attraversando una fangosa e innevata area di confine, atteso dagli operatori di Intersos impegnati nella distribuzione di cibo nella provincia Faryab e nel programma di ricostruzione di due scuole femminili a Maymana.

Da allora sono ritornato ripetutamente, per condividere preoccupazioni e speranze con decine di operatori italiani e alcune centinaia di afghani impegnati nei campi di rifugiati di ritorno dal Pakistan, nella ricostruzione di case, scuole, infrastrutture comunitarie, nella formazione professionale, nello sminamento umanitario in una quindicina di province. È costruendo legami, dialogando, analizzando che Intersos ha cercato di capire la realtà, farla conoscere e prendere posizione di fronte alle scelte politiche e alle strategie adottate con la progressiva occupazione militare dell’Afghanistan.

Fin dall’inizio è stato chiaro che la politica stava coprendo con la presenza militare la sua incapacità – come in Somalia, come in Iraq – di elaborare una visione e una strategia coerenti e lungimiranti, facendo tesoro della storia e basandosi sulla cultura, la struttura della società, la comprensione e condivisione delle sue aspettative. Anche all’Italia è mancata chiarezza. «Procedere solo per dovere di alleanza, in una probabile escalation militare 'di contrattacco e di difesa' piuttosto che nella realizzazione di una strategia multilaterale, partecipata, condivisa dagli afghani e con loro realizzata... potrebbe portare a una dolorosa e catastrofica fine.

A pagarne le conseguenze sarebbe, ancora una volta e prima di tutti, la popolazione afghana ». Questa era, già nel 2006, la convinzione pubblicamente espressa da Intersos. Ad avviso delle Ong italiane raggruppate nella rete 'Afgana' – che si sono espresse con documenti pubblici indirizzati al ministro degli Esteri, al Parlamento, ai media – occorreva un ribaltamento per dare priorità ai bisogni delle popolazioni e alla ricostruzione rispetto all’azione militare. Il rapporto di 10 a 90 tra spese civili e spese militari non poteva essere compreso né accettato dagli afghani. Fin dal 2007 proponevamo che tale rapporto divenisse 50 e 50 come segnale di progressiva inversione di tendenza. Inutilmente.

C’era innanzitutto da programmare in modo diffuso efficaci aiuti ai civili assicurando acqua, elettricità, cure mediche, educazione, servizi sociali e sanitari, tutela dei più deboli, sicurezza e protezione, rispetto dei diritti umani, sostegno alle istituzioni, visibile lotta alla corruzione e all’impunità, valorizzazione delle capacità, intelligenze e risorse umane afgane. La popolazione doveva poter vedere – non solo a Kabul e in alcune grandi città – un reale cambiamento e poterlo apprezzare per tornare a credere nella presenza internazionale come portatrice di reale aiuto.

È quanto i 25 leader di autorevoli organizzazioni afgane della società civile, ricevuti dall’allora presidente Giorgio Napolitano e dalla Commissione Esteri della Camera, ribadirono durante la conferenza internazionale della società civile afghana promossa da Intersos con la rete Afgana a Roma nel maggio 2011. Purtroppo, però, tutto è continuato come prima: con quel 10% di cooperazione civile per la ricostruzione e lo sviluppo, di grande valore e con tangibili risultati, anche se insufficiente, e il 90% per l’azione militare. Quando sono state fissate date per la fine dell’intervento non è stata al contempo elaborata alcuna visione condivisa del futuro dell’Afghanistan e non sono stati definiti obiettivi da perseguire e raggiungere con un coordinato piano programmatico. Unilateralismo e un certo servilismo hanno dominato negli anni, portando al prevedibile e annunciato fallimento. L’Afghanistan non interessa ai decisori politici. Forse non è mai interessato.

Non interessano il destino della sua popolazione e la nuova catastrofe umanitaria che è già iniziata e che sarà forse peggiore delle precedenti, con milioni di persone coinvolte. Non interessano le tante risorse – donne e uomini – impegnate nel sociale, nell’educazione, nella cultura, nell’informazione, nella formazione, nella partecipazione politica, che hanno creduto nel cambiamento annunciato, impegnandosi e rischiando personalmente.

Sono stato e mi sento ancora molto legato all’Afghanistan e alla sua gente, inorridendo di fronte alla normalità dei bombardamenti e dei loro ripetuti 'effetti collaterali' su persone innocenti. E ho sentito appartenermi pienamente le morti dei militari italiani ai cui funerali in Santa Maria degli Angeli ho partecipato. Si tratta di morti che oggi esigono ancora più severamente quella risposta che la politica non sa fornire alla domanda: perché? C’è da sperare che almeno rimanga chiaro, poiché ampiamente dimostrato, che l’opzione militare – come 'Avvenire' ha ricordato a più riprese – non risolve i problemi: può forse spostarli nel tempo ritardandone gli effetti, ma spesso anche aggravandoli. E c’è da far sì che rimanga chiaro che la politica ha sempre il dovere di assumersi le proprie responsabilità, definendo scelte, strategie e obiettivi, senza scaricare sulle Forze armate la propria incapacità di assumerle.

È ormai compromesso ogni accordo siglato tra americani e taleban prima del crollo dello Stato afghano e della proclamazione del secondo Emirato. Eppure, anche in contesti così difficili e complessi lo spazio della parola, del dialogo, della mediazione non deve mai essere abbandonato. Conviene a tutti, anche agli stessi taleban. Donini e Niland, esperti di diritti umani e diritto umanitario e fondatori di United against inhumanity, hanno proposto una mediazione urgente di Paesi non coinvolti, quali Svizzera e Malesia, oppure Irlanda e Indonesia. È una proposta che andrebbe appoggiata a livello internazionale, prima che sia troppo tardi.

Presidente emerito di Intersos

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