giovedì 1 marzo 2018
Nel Rakhine, la loro regione in Myanmar, interi villaggi abbandonati vengono spianati dalle ruspe e dai blindati. La loro condizione è sospesa. I leader non vogliono il ritorno in una terra ostile
I rifugi di fortuna costruiti da Rohingya a Cox’s Bazar, in Bangladesh (Ansa)

I rifugi di fortuna costruiti da Rohingya a Cox’s Bazar, in Bangladesh (Ansa)

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Il 25 febbraio, l’esodo dei Rohingya dalle loro case nello Stato birmano di Rakhine ha compiuto sei mesi. A spingere in poche settimane da quella data 700mila musulmani di etnia Rohingya oltreconfine, in Bangladesh, sono stati i rastrellamenti dei militari e paramilitari birmani, condotti non solo con metodo ma anche con ferocia. Un’operazione che manifesta la volontà di procedere alla fase finale della pulizia etnica denunciata dall’Onu e da altri.

E che ebbe il suo prologo nell’autunno 2016 e le sue radici nell’estate 2012. Non si sa, se non con terribile approssimazione, quante siano state le vittime, in molti casi seppellite in fosse comuni o bruciate nel rogo di intere comunità. Quello che invece è noto per le innumerevoli testimonianze dei sopravvissuti è che la violenza non ha risparmiato nessuno, con un accanimento particolare su donne e bambini. Sia perché sono le vittime più indifese sia perché – per i sopravvissuti – saranno quelle in cui la memoria delle atrocità subite permarrà più a lungo. I militari hanno negato tutto, accusando non solo i militanti musulmani armati di essere all’origine della crisi, con gli attacchi coordinati contro posti di polizia il 25 agosto 2017, ma anche di essere responsabili di molti degli atti attribuiti ai soldati, inclusa a cancellazione con il fuoco di centinaia di insediamenti rohingya.

Il mondo ha guardato da subito a Aung San Suu Kyi, eroina del lungo braccio di ferro del movimento democratico e nonviolento con il regime militare dal 1989 al 2010. Si guarda a lei perché oggi ha un ruologuida nell’esecutivo civile, costretto a condividere il controllo del Paese con un apparato militare che ha diritto di veto su ogni decisione parlamentare e governativa. Attonita, la comunità internazionale ha dovuto constatare il voltafaccia del premio Nobel per la Pace, arrivata al punto di non pronunciare e di negare al Paese e persino al Papa in visita a novembre l’utilizzo del termine 'rohingya'.

L’attuale Consigliere di Stato e ministro degli Esteri ha spostato le tesi dei nazionalisti buddhisti che si tratti di immigrati illegali dal Bangladesh e, quindi, senza quel diritto alla cittadinanza, alla sicurezza e alla dignità di popolo reclamato per loro dalla comunità internazionale e sollecitate più volte anche dalla Chiesa. E ha chiuso le porte a una soluzione equa per una etnia stimata in due milioni di individui, ormai per la maggior parte all’estero: almeno un milione complessivamente in Bangladesh, mezzo milione in nazioni del Golfo, 100mila tra India e Pakistan, forse altrettanti in Indonesia e Malaysia.

Attualmente, nel Rakhine si hanno notizie di interi villaggi abbandonati dagli abitanti che vengono spianati dalle ruspe e dai blindati, a indicare che ai profughi sarà negata ogni possibilità di rivendicare un passato. Non sarà un caso se il governo di Dacca e le molte organizzazioni presenti nei campi vanno rafforzando le strutture di accoglienza e non solo in vista delle piogge imminenti. Da mesi sono cominciati i lavori di livellamento e di predisposizione di costruzioni 'provvisorie', necessarie ad accogliere 100mila profughi sull’isola di Bhasan Char, nel delta del fiume Meghna.

Una distesa di sabbia pressoché disabitata a rischio di inondazioni e delle maree sempre più alte ma, soprattutto, senza alcuna possibilità di garantire ai Rohingya lavoro, istruzione, qualsiasi prospettiva, insomma. La condizione dei Rohingya è sospesa. I loro leader non vogliono il ritorno in una terra ostile dove sarebbero, nella migliore delle ipotesi, segregati; le Nazioni Unite spingono per il rimpatrio volontario, ma il governo birmano rifiuta ogni riconoscimento legale. Infine, il governo bengalese – che teme le conseguenze di una convivenza prolungata dei Rohingya con la popolazione locale per la pressione su terre e risorse limitate, per l’aumento accelerato dei prezzi, per lo sfruttamento criminale che già si fa strada e per la possibilità di infiltrazioni jihadiste – spinge per l’uscita e si prepara al peggio.

Non a caso, dalla firma dell’accordo per il rimpatrio il 23 novembre, almeno 70mila nuovi fuggiaschi sono arrivati in Bangladesh, a centinaia ogni giorno. Difficile immaginare un ritorno quando, come ha comunicato il capo della polizia della città bengalese di Teknaf, Mainuddin Khan, «gli ultimi arrivati descrivono un’insicurezza permanente, minacce e pressioni persino dentro casa, torture, villaggi ormai abbandonati».

Nei campi, d’altra parte, si teme l’arrivo del monsone che da aprile porterà piogge torrenziali e fango in una regione critica per collocazione geografica. Per questo le autorità locali stanno cercando di alleggerire la pressione, avviando l’esodo di 200mila individui ora negli agglomerati dell’area di Cox’s Bazar. «Temiamo i monsoni in arrivo, che potrebbero scatenare un’emergenza nell’emergenza. Gran parte delle tende, costruite con pali di bambù e teli di plastica, rischia di essere spazzata via da acqua e fango. L’accesso ad alcune zone dei campi potrebbe essere compromesso per giorni. Le piogge aggraveranno ulteriormente le già pessime condizioni igieniche, aumentando l’incidenza di malattie come diarrea o epatite. Stiamo preparando la nostra risposta, cercando di anticipare i potenziali danni anche alle nostre strutture sanitarie, ma lo spettro che tutti facciamo fatica anche solo a nominare è il colera», conferma Andrea Ciocca coordinatore di progetto di Medici senza Frontiere a Cox’s Bazar.

«L'elevata densità abitativa e la precarietà delle condizioni igieniche mettono i Rohingya a rischio di un’emergenza sanitaria. Le nostre squadre mediche trattano quotidianamente infezioni del tratto respiratorio e malattie gastrointestinali, ma anche infezioni trattate in modo inadeguato o malattie croniche che non sono mai state curate correttamente. A breve distanza – ricorda Ciocca – sono già scoppiate due epidemie: una di morbillo e una, inaspettata, di difterite. Questo conferma che i Rohingya in Myanmar avevano ridottissimo acceso alle cure mediche di base, incluse le vaccinazioni. Ci sono poi gli esiti, sia medici sia psicologici, delle ferite e degli stupri, che ci restituiscono un quadro di aggressioni sistematiche e particolarmente brutali».

Qual è la situazione complessiva dei profughi vista da chi ne condivide la realtà? «Guardando gli insediamenti da fuori è quasi impossibile immaginare che sei mesi fa erano parchi naturali, foreste abitate dagli elefanti. Gli alberi sono scomparsi, le colline sono tutte scavate e ricoperte da teli di plastica. Intere famiglie vivono ammassate le une sulle altre.

Migliaia di uomini, donne e bambini passano le giornate in fila per la distribuzione di acqua e cibo o alla ricerca dei pochi rami rimasti, da bruciare, per scaldare l’acqua e cucinare l’immancabile scodella di riso. Per quanto tempo questa gente potrà vivere in queste condizioni? È evidente che siamo di fronte a un’emergenza umanitaria destinata a generare sofferenza per lungo tempo», conclude Ciocca. Intanto, si fanno strada anche i timori per i bambini, oltre 340mila. Sono 28 i casi accertati di traffico di minori nei centri di accoglienza e elencati nel nuovo rapporto di Save the Children, che denuncia una situazione che aggiunge tanti rischi ai traumi a cui molti tra i più giovani sono stati sottoposti durante la fuga.

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