Abbaia non morde e fa affari (i giochi di guerra di Putin)
mercoledì 24 novembre 2021

Sono ormai quasi 120mila i soldati russi ammassati alla frontiera con l’Ucraina. Troppi per una normale esercitazione militare e al tempo stesso troppo visibili perché non destino allarme a Washington e nel cuore della Nato. Il medesimo allarme che suscitano i frequenti passaggi dei bombardieri di Mosca lungo il confine con la Polonia. Ed è in perfetto stile sovietico – quello cui Vladimir Putin è anagraficamente avvezzo – la smentita categorica ma ambigua con cui il Cremlino ha dichiarato di aver intenzione di attaccare l’Ucraina. Un cane che abbaia, e che non morderà, è opinione comune.

Ma non è del tutto vero. Anche perché Putin ha fondati motivi di preoccupazione. Non soltanto per la pressione dell’Alleanza Atlantica che dal Baltico alla Vistola fino al Mar Nero (teatro di un recente incidente navale con la Marina britannica) stringe mese dopo mese i confini della Federazione Russa riesumando l’arcaico terrore dell’accerchiamento che fu degli zar. Alla strategia occidentale che appoggia Kiev come virtuale membro esterno della Nato si assomma la variabile Erdogan: membro chiave dell’Alleanza e al tempo stesso spregiudicato battitore libero, capace di acquistare da Mosca sistemi antimissile made in Russia e insieme vendere al presidente ucraino Volodymyr Zelenskiy i micidiali droni che i russi hanno già visto in azione in Libia e nel Nagorno Karabach. Non fosse ben chiara la sperimentata capacità di Putin di giocare d’azzardo, verrebbe da dire che il modello cui si ispira oggi è proprio quello del presidente turco.

Ma a differenza di Erdogan – che giocando su più tavoli dall’Africa, alla Siria, alla Libia cerca di porsi come grande player nelle aree di crisi – Putin sta attuando pressoché dovunque l’unica strategia che la Russia (dove la crisi economica, lo scarso successo nella lotta al Covid e il sostanziale crollo di popo-larità del presidente s’intrecciano in un abbraccio letale) è in grado di utilizzare con qualche probabilità di successo: quella di mantenere dovunque uno stato di tensione costante senza mai davvero tradurlo in aperto conflitto. Istigatore e protettore di Lukashenko (impossibile non individuare la connivenza del Cremlino nella criminale gestione dei profughi ammassati a ridosso della frontiera polacca, lettone, lituana, sebbene la prima mossa l’abbia fatta con autarchico cinismo il dittatore bielorusso, salvo poi farsi rimproverare da Putin stesso per aver minacciato di bloccare il transito del gas russo verso l’Europa), da mesi l’uomo di Mosca manda a briglia sciolta i cacciabombardieri russi lungo i confini dei Paesi Nato, testando le capacità di reazione occidentali e mantenendo così quello stato di allarme che gli consente di affermare – come ha fatto di recente - : «I nostri avvertimenti sono stati percepiti e stanno avendo effetto».

Lo stesso accade nel suo ruolo di protettore delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk nel Donbass, due costose enclave in territorio ucraino strappate a Kiev all’indomani dell’annessione della Crimea del 2014, che Mosca finanzia con sei miliardi di dollari all’anno al prezzo di una guerra a bassa intensità che ha già superato tuttavia le diecimila vittime e che Putin ha ferma intenzione di conservare: un pungolo nel cuore dell’Ucraina e un monito agli occidentali.

Avviene la stessa cosa anche in Libia, dove si stanno predisponendo le elezioni presidenziali per il prossimo 24 dicembre, ma dove la presenza di mercenari russi – i famigerati contractors della Wagner – e di candidature problematiche come quella del ras cirenaico Haftar (per anni uomo vicino al Cremlino, per non dire della ricomparsa sulla scena del figlio di Gheddafi Saif al-Islam) rendono difficile immaginare una transizione democratica senza incagli. Cosa ricavare dunque da questo puzzle complicato da mille interessi incrociati e divergenti? A dispetto dell’allarme che si alza da Washington, la metafora del cane che abbaia ma non morde rimane la più convincente, si mormora nei corridoi della Nato.

L’inverno è alle porte e sia l’Europa sia la Russia fanno affidamento sui provvidenziali rubinetti energetici: noi europei per riscaldare le nostre case, Mosca per riempire di valuta pregiata le proprie casse esauste. «L’affidabilità della Russia come fornitrice sotto gli attuali e futuri contratti è fuori discussione», ha fatto sapere il portavoce del Cremlino Peskov. Come dire, il vero arbitro di questa eterna partita fra Putin e l’Occidente alla fine rimane sempre il reciproco interesse economico.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI