domenica 2 ottobre 2016
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È una storia di ferite da ricucire, di distanze che si accorciano, di memoria da riconciliare, di semi di nuova fraternità. Da Tbilisi, capitale georgiana, prima tappa del suo secondo viaggio in Caucaso, il Papa ha rilanciato con forza l’impegno per l’unità dei cristiani, stella polare di un cammino che ha come punti cardinali la preghiera, il coraggio del dialogo, la testimonianza comune della verità e della carità.

Una prospettiva tutt’altro che agevole in un territorio che paga ancora lo scotto della lunga dittatura atea, in una regione dove resistono, piccoli ma tenaci, gruppi capaci di intravedere le fattezze dell’avversario, del pericolo da evitare, persino nell’umiltà disarmata e semplice di Francesco.

Ecco allora l’importanza, di ripartire dalla fonte, quel «prima di tutto il Vangelo», che rappresenta il cuore del faccia a faccia tra Bergoglio e l’anziano patriarca ortodosso georgiano Ilia II. Perché è quello il «segreto» di un autentico cammino di riconciliazione. Si gioca lì, nello stare saldamente attaccati al Signore, la capacità di evangelizzare - sono parole del Papa - come, anzi più che in passato, «liberi dai lacci delle precomprensioni e aperti alla perenne novità di Dio». Il cammino però non è facile.

La conferma, una volta di più, arriva dalla cronaca di giornata, dall’assenza della delegazione ortodossa georgiana alla Messa celebrata dal Pontefice nello stadio Meskhi. Una decisione, motivata con ragioni, che pure ci sono, di «canone», dietro la quale non è difficile intravedere il timore di apparire subalterni, il debito verso un passato di divisioni che si fatica a superare, il richiamo a una purezza dell’ortodossia il cui esito finale rischia di essere un antistorico isolamento. I segnali in tal senso, pur controbilanciati da significative aperture, non mancano.

Anche nell’attualità recente. Non a caso la Chiesa ortodossa di Georgia ha disertato il Concilio di Creta e se ha votato sì al documento su primato e sinodalità approvato nei giorni scorsi dalla Commissione teologica mista riunitasi a Chieti, lo ha fatto pretendendo che nel comunicato finale si facesse riferimento al proprio «disaccordo» su alcuni punti del testo. Eppure è proprio dalla consapevolezza delle reciproche differenze che deve alimentarsi il dialogo, è nel rispetto delle peculiarità dell’altro che va motivato l’impegno per l’unità. Nell’attenzione al «fratello» come persona, nella preghiera comune.Per questo l’incontro di Tbilisi tra il Papa e Ilia II va letto come il richiamo a un nuovo slancio di fraternità, alla volontà di proseguire uniti nell’annuncio del Vangelo della pace, filo di speranza che unisce la terra al cielo. E per essere ancora più chiaro, per sgomberare il campo da ogni possibile fraintendimento, Francesco ha richiamato la testimonianza dei martiri georgiani, affidando alla loro intercessione il «sollievo», il sostegno a tanti cristiani che ancora oggi soffrono persecuzioni e oltraggi. Perché se non si traduce in comportamenti concreti, se non si fa carico di chi fa più fatica, la preghiera risulta monca, per certi versi sterile.

E invece il mondo, assetato di misericordia e unità, ha bisogno di un impegno comune di tutti i cristiani. In campo etico, per vincere «la guerra mondiale» lanciata contro il matrimonio, in primis dalla cosiddetta (e multiforme) teoria del gender. Sul fronte dell’accoglienza dei migranti, a dispetto dei muri che si costruiscono persino nel cuore dell’Europa. Nell’attenzione agli ultimi, agli scartati, compresi i nuovi poveri, gettati in strada da un’economia che tutela più i profitti aziendali delle persone.

Nella protezione dei piccoli a cominciare dai più deboli, cioè i figli cui si impedisce persino di nascere. Ma per riuscirci, perché l’abbraccio tra il Papa e Ilia II non resti un gesto da consegnare agli archivi e subito dimenticato, occorre capire, guardandosi negli occhi, chi siamo davvero. C’è bisogno di ritornare alle fonti, alla supremazia del Vangelo, occorre restare attaccati al Signore. E così scoprire una volta di più, che il proselitismo non ha senso, è un peccato contro l’ecumenismo, che sono molte di più le cose che uniscono le Chiese rispetto a ciò che le dividono, che l’unità si costruisce pregando gli uni per gli altri. Che la teologia è importante, certo, ma ancora di più c’è bisogno della profezia dei piccoli gesti, di umili tessitori del dialogo, di testimoni disarmati. Di uomini e donne che a dispetto delle differenze si riconoscono fratelli. Nell’unico Gesù Cristo.

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