domenica 6 dicembre 2015
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I santi hanno sempre risolto plasticamente un problema: saldare umano e divino. Imitatori di Cristo, perfetto Dio e perfetto uomo, riuscirono nella loro vita a ripresentare quell’equilibrio tra cielo e terra, tra spirito e corpo, tra mani e pensieri, che risolve tutte le crisi umane.Così Francesco, otto secoli fa, inventava il presepe proprio per unire spirito e corpo e fare memoria viva del mistero dell’incarnazione. Dio era venuto in un recinto, presepe vuol dire ciò che ha dinanzi ( prae-) un recinto, siepe (- sepes): la mangiatoia. Dio viene nel Recinto del Mondo, confina il suo infinito ed eterno fino a sfinirlo, per concedere allo spazio e al tempo finiti di superarsi e trascendersi, dalle stelle alla stalla e ritorno. La teologia esistenziale di Francesco rendeva permeabile ai sensi dei suoi contemporanei ciò che dodici secoli prima Dio aveva reso permeabile, una volta per tutte, agli uomini di tutti i tempi, incarnandosi: facendo il presepe Francesco ripeteva l’iniziativa di Dio, facendo risuonare in un piccolo spazio della sua terra quello che Dio aveva fatto venendo nel piccolo spazio della sua Terra. Il rito del presepe è infatti un rito di ri-creazione: dà gioia e materialmente rifà la storia della salvezza, facendola uscire dalle mani dell’uomo. Nella mia terra, la Sicilia (Terra di Meraviglie e non solo di altre 'M' come sostenuto recentemente da alcuni) ci furono le mani di un uomo, nel 1600, che si dedicarono all’attività di scultore proprio per questa ri-creazione: Giovanni Antonio Matera, operante fra Trapani e Palermo, soprannominato dai suoi concittadini Mastru Giuvanni lu Pasturaru, scolpì presepi e soprattutto pastori, che in miniature di 20-30 centimetri confinavano nell’arte scultorea del barocco siciliano l’essenza del mondo. Ne rimase impressionato persino il principe Ludovico di Baviera che, nel suo viaggio in Sicilia a inizio ’800, fece incetta di quei pastori, pezzi unici, tanto che il figlio Massimiliano II li collocò nel Museo nazionale di Baviera. Anche io quando ero bambino sperimentavo questa forza 'ricreativa' nel fare il presepe. Era il rito che scandiva il nostro Avvento (lo spirito ha bisogno della materia), all’inizio del quale i genitori ci portavano in escursione in montagna, alla ricerca del muschio fresco nel bosco di San Martino delle Scale. Bisognava essere attenti a scovare i tappeti di muschio più ampi, così da averne pochi pezzi compatti, che rendevano il presepe più bello. Dovevamo aver cura di staccarlo, meglio dalle rocce che dagli alberi, senza rovinarlo, scegliendo quello con meno terriccio. Poi veniva il rito della pulitura e dell’essiccazione. Solo allora si poteva stenderlo sulla base di polistirolo coperta di giornali e cominciare la creazione di quel mondo in miniatura, in cui era rappresentato il gioco che Dio fece col Mondo alle origini, sapendo che sarebbe stato il recinto dentro cui avrebbe giocato il Verbo fatto Bambino.La Creazione non era altro che il Presepe, la camera del Bambino. E qui la storia di quello scultore siciliano del 1600 si intreccia con la mia, perché mentre il muschio si asciugava andavamo a comprare un pastore nuovo. Erano pastori grandi, tra i venti e i trenta centimetri, di legno.  Ogni anno, dato il costo, ne compravamo solo uno, da un artigiano che si dedicava soltanto a questo (ora non esiste più). I pastori imitavano quelli della tradizione siciliana, tra i quali quelli inventati da Matera, che scolpiva su legno di tiglio le parti del corpo e lo scheletro, sul quale sovrapponeva, con la tecnica della 'tela e colla', vesti e oggetti caratterizzanti il personaggio. Per me, bambino dotato di grande fantasia, era un vero e proprio avvento: costruivamo il mondo da capo, perché il Natale accadesse, mescolando gli elementi vivi del creato, come il muschio, a quelli verosimili dell’arte umana, le statue del presepe. Tutto si indirizzava verso una perfetta sintesi. Uno dei pastori inventati da Matera era il 'pastore che si toglie la spina dal piede', nel quale mescolava l’eco colta dello Spinario di età ellenistica e il gesto realistico del pastore che, recandosi di corsa verso la Grotta dell’Annuncio, si ferisce proprio su quel terreno che imitavamo con il muschio ancora fresco e profumato. Vorrei dedicare questa prima puntata narrativa sul presepe proprio a questo personaggio e al muschio. Il Creato è una delle due strade – l’altra è la Scrittura – che Dio ha battuto per farsi trovare, qualcosa che già il mondo pagano sapeva, come testimonia la risposta di Aristotele a quel tale che gli chiedeva dove avesse imparato le verità che spiegava: «Nelle cose, poiché esse non mentono». La terra non mente, il muschio non mente (indica sempre il Nord, perché cresce sulla parte più umida e fresca degli alberi). Il pastore che si toglie la spina lo sa: la strada per raggiungere la grotta è il Creato, da contemplare, conoscere, coltivare, custodire. Ma quel Creato sa anche difendersi, irto di spine, resiste alla trasformazione e coltivazione, soprattutto se sconsiderate, o addirittura può irretire con i suoi rovi, ferire fino ad avvelenare. Per questo, come quel pastore, proprio mettendosi in cammino d’Avvento, si sentirà l’urgere della spina che ferisce la nostra carne, che ci ricorda che la nostra umanità è fragile e che per accostarci dobbiamo prima voler eliminare la spina che ci affligge, mostrare la ferita perché venga curata. Le spine estirpate verranno tutte raccolte e intrecciate per una corona regale, il nostro dono al Re che viene come Bambino, la Corona che ha voluto accettare perché quel pastore, tu e io, diventassimo Re.
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