mercoledì 25 novembre 2009
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Si dice che «fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce». E questo è un tempo di alberi che si abbattono fragorosamente e di una foresta, che in Italia e nel mondo, germoglia più inavvertita che mai. Il vento della grande crisi ha spazzato per lunghi mesi le nostre società, ha provocato sconquassi e creato squarci, anche utili, nella selva di "felici" certezze del dopo-Muro. Abbiamo avuto la prova che le libertà politiche ed economiche sono essenziali, ma non sono necessariamente sorelle (ce lo ripete ogni giorno il poco che riusciamo a percepire della Cina e il tanto che constatiamo della sua potenza produttiva). E, soprattutto, ci è stata data, nel modo più ruvido, la conferma che quelle libertà non bastano mai a se stesse e non producono automaticamente equità e tranquillità sociale, autentica liberazione.Ci siamo anche resi conto che, per dare corso e stabilità a una degna «ripresa», alla comunità delle nazioni, e alle nostre comunità di vita e di lavoro, servono una morale completa e forte ma anche regole minute e stringenti. Abbiamo pagato, infatti, il prezzo della irresponsabilità finanziaria e della miopia politica (provando crudamente nel giorno per giorno il peso delle ingordigie, delle diseguaglianze e dell’ingiustizia) e, pian piano, stiamo cominciando a capire che s’impone la riscoperta di un senso alto dell’agire sociale e civile, di un sentimento della vita calibrato sul riconoscimento della dignità di ogni singola persona e ispirato alla verità profonda dell’umano. Verifichiamo, insomma, l’urgenza di un nuovo e consapevole umanesimo, di un rinascimento possibile e necessario. E vediamo che sempre più uomini e donne, credenti e no, testimoniano come su questa via siano decisivi il coraggio della speranza cristiana e, comunque, l’onestà intellettuale di vivere e operare etsi Deus daretur. Misurandoci con Dio, e facendoci dare misura. È l’insegnamento che Papa Benedetto XVI offre al mondo, in dialogo con ogni intelligenza e ogni buona volontà. E a moltissimi questo è ormai chiaro, anche se non a tutti. Tanti di noi, cittadini del terzo millennio, continuano in effetti a ritenere che «tutto sia relativo», e che tutto possa sempre e liberamente cominciare e ricominciare sine regula nei laboratori della politica e dell’economia come in quelli della scienza e della tecnologia. Probabilmente – lo intuiamo, continuando ad augurarci il contrario – costoro hanno bisogno di sperimentare tempi supplementari di avventura, di scontro e di crisi, e sono in attesa di nuove prove, di nuovi sconquassi.Noi no. E io, oggi, nel momento in cui comincio ufficialmente il mio lavoro di direttore del quotidiano italiano di ispirazione cattolica, vorrei confermare ai nostri lettori che noi giornalisti di Avvenire continueremo – per mestiere e per convinzione – a tenere gli occhi bene aperti su ciò che davvero conta. Con una bussola di valori solida e una mappa ben disegnata. Forti della vicinanza con la «Chiesa di popolo» che, come ci ha ricordato il cardinale Angelo Bagnasco, è l’Italia ed è per l’Italia. Aperti, per scelta programmatica, al dialogo franco e sereno con tutti.Ovviamente, sappiamo di non essere i soli e di non essere soli. Ma, per la parte che ci riguarda, dallo straordinario punto di osservazione e d’informazione che in questi anni, in coerenza con la sua ragione fondativa, il nostro giornale è diventato, ci sforzeremo di onorare giorno dopo giorno un dovere liberamente e motivatamente accettato: occuparci dei "mali" dell’Italia e del mondo, ma contemporaneamente, con tutta la possibile passione, preoccuparci di dar conto del "bene" che c’è, che accade in ogni dove, che costruisce un altro futuro. Nelle periferie interetniche delle città che abitiamo e nel cuore antico e smarrito della nostra Europa, nelle missioni d’Africa e d’Asia e sulle terre strappate alle mafie, nelle Americhe del primo presidente Usa nero e di strani e inaspettati etnonazionalismi e dentro e intorno alle fabbriche che drammaticamente chiudono (e a quelle che – grazie a Dio – riaprono), nelle terre insanguinate dalle guerre,  dalle intolleranze e dai pogrom anti-cristiani e là dove, invece, la libertà religiosa è vera e la pace si dimostra. Continueremo a chinarci con rispetto su ogni albero che cade, e ad ascoltare con passione la foresta che cresce.Potremo farlo perché abbiamo un editore che ci dà responsabilità e forza, perché questa è una redazione di giornalisti veri e perché abbiamo lettori liberi ed esigenti. Io sono stato uno di loro. Leggevo questo giornale da ragazzo. Era uno di quelli, tre o quattro (lo so, sono stato fortunato ad avere i genitori che ho avuto) che ogni giorno entravano a casa nostra, nella mia terra d’Umbria. Da uomo fatto, da professionista cresciuto altrove, sono arrivato ad Avvenire con quell’antica curiosità di lettore. E Avvenire non mi ha deluso. Mai. Proprio come Dino Boffo che in questa redazione, al primo colloquio, da grande direttore e da persona limpida qual è, mi convinse a lavorare. Continuerò a farlo.
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