mercoledì 3 febbraio 2021
Un ritratto del grande fotografo bergamasco morto il 2 febbraio scorso: ha raccontato la grande civiltà contadina e il suo tramonto. Sue le immagini più celebri del pontificato di Paolo VI

Il cielo ha chiamato a sé l’ultimo degli umanisti. Alle 22 di martedì 2 febbraio, festa della Presentazione di nostro Signore, Pepi Merisio ha chiuso i suoi occhi alla luce di questa terra. Quegli occhi hanno scrutato orizzonti e genti d’Italia e del mondo, hanno saputo vedere quello che altri non videro e offrirci, grazie alla fotografia, volti, luoghi e sguardi pieni di vita, di bellezza, di speranza, di dolore… I suoi non erano semplici “scatti”, erano e sono icone di un’umanità che, senza la sua passione e la sua arte, non avrebbe lasciato segno, se non negli affetti e nel ricordo delle persone amate. Pepi mi perdonerà se parlo di “arte”: lui aborriva i fotografi che si atteggiavano ad artisti, ma la sua era arte vera. Un gigante nel fisico e nello spirito, un’intelligenza che sapeva andare al cuore delle cose senza sofismi, un filosofo vero (con tanto di laurea), un discepolo dell’evangelico “Sì sì, no no” oggi così fuori moda. Schietto e generoso come sanno essere i figli di Caravaggio e della Vergine a cui sono devoti, aveva il dono di guardare col cuore. Il suo tratto distintivo era la purezza dello sguardo. Pepi era sempre pronto a entrare in empatia con i soggetti che ritraeva e aveva la capacità di arrivare dentro le persone e le cose e restituircene l’essenza.

La stella cometa del suo percorso creativo, fin dagli anni Cinquanta, è l’interesse per l’uomo. La sua è la bellezza della memoria che si offre nel segno dell’essenzialità. Il suo è un canto all’umanità fatto di immagini che colgono l’amore, il lavoro, l’amicizia, l’attesa, la gioia, la preghiera. Un canto di terra e cielo, vita e morte. Ecco il genio di Merisio: la capacità di raccogliere gli estremi (e quindi il tutto) in uno sguardo. I suoi orizzonti sono le sue radici. Non ha avuto bisogno di migrare alla ricerca dell’esotico o dell’evento da narrare, anche se ha molto viaggiato percorrendo le strade delle Americhe, dell’Africa e dell’Asia. Fin dall’inizio il suo obiettivo ha puntato su quel che aveva sotto gli occhi. E fin dall’inizio ha compreso che la vera questione non era (soprattutto) il soggetto, ma lo sguardo.

La fotografia di Pepi ha la stessa concretezza della gente che ritrae, ha il sapore fragrante del pane e l’allegria del buon vino, la speranza gioiosa dei bambini, la genialità dell’artigiano tutto preso dall’urgenza della realtà, la serenità dei vecchi che tutto hanno dato e poco hanno chiesto. Il suo racconto per immagini è forte e lieve insieme, vibra come le note di un canto: non riempie solo lo sguardo, allarga il cuore.

All’inizio dell’avventura professionale di Merisio c’è una morte e un funerale. Sì, un evento intimo – e questo in netto contrasto con la sua innata riservatezza –, la dipartita di uno zio, diventa l’occasione per una serie di scatti che lo renderanno famoso in Italia e oltreconfine. Al centro è la concezione del tempo, nella sua dimensione spirituale e culturale: In morte dello zio Angelo, evento vissuto non come drammatico epilogo dell’esistenza, ma proiezione dalla terra al cielo, perché il cielo nel mondo contadino era tanto reale da fecondare la terra e, insieme, accogliere le anime dei morti. Pubblicato nel 1963 dalla rivista Du, questo lavoro segna la sua affermazione a livello internazionale. È la svolta, dopo un lungo tirocinio e concorsi anche all’estero: è occasione di elogi da parte di Henri Cartier-Bresson, gli apre le porte di Epoca (con Una giornata col Papa, servizio del 1964 da cui nasce un rapporto di amicizia con Paolo VI che durerà per tutta la vita), Stern, Paris Match, Look

Dall’esigenza di “immortalare” la civiltà contadina nasce la poetica degli ultimi. Pepi ha compreso il tramonto di un mondo che in un millennio aveva conosciuto ben poche rivoluzioni, poco era cambiato e sembrava non dover cambiare mai, con i suoi valori e le sue fatiche, con le sue regole non scritte e arcane. È il suo “Cantico delle Creature del Novecento” dedicato ai semplici e al loro senso profondo di dignità, in una costellazione di volti, gesti, tradizioni e antichi riti. Diceva: «Fotografando miniere, filande, osterie, paesi, il lavoro dei campi e le feste religiose ho preso coscienza del mondo rurale come civiltà. La campagna era vissuta in tutte le stagioni, dalla semina fatta a mano al rito corale della trebbiatura. Oggi non vedi più l’uomo nei campi, e con la scomparsa dell’uomo cambia anche il paesaggio, a partire dai grandi filari alberati a disegnare i confini, poi tagliati perché facevano ombra: l’ombra dei grandi pioppi era una benedizione per il bracciante, ma è inutile spreco di terra per il contadino meccanizzato».

La coralità di Pepi non è solo quella tra gli uomini, ma anche quella tra gli uomini e la loro terra. E gli sguardi dell’ultima stagione della civiltà contadina, che lui ci offre, non sono omologati dalla tv, non hanno conosciuto le reti Internet, ma solo le reti parentali e degli amici.

Poteva diventare il cantore della metropoli, ha scelto di essere il cantore del mondo che gli ha dato i natali. Un universo talmente forte e radicato che non si è arreso al progresso, ma dal progresso è stato spazzato via. Merisio ha colto lo scorrere dell’esistere ancora segnato dal ciclo delle stagioni e prima ancora delle giornate in cui gli uomini sorgevano con il sorgere del sole e chiudevano i battenti dei casolari al suo tramonto, e la luce della natura segnava il ritmo della vita meglio delle lampadine e dei neon.

Dice il figlio Luca, anche lui fotografo: «Ho imparato a guardare il mondo attraverso i suoi occhi. Recentemente aveva annotato: “Sono un testimone affettuoso della vita, delle gioie e delle fatiche, che siano di uno spaccapietre come di un papa”. Queste parole racchiudono bene la sua essenza, la sua anima».

Merisio è un maestro della realtà, del mondo vero, quello che ci ha raccontato consumando le suole delle sue scarpe e poi passando notti e giorni nel buio di un laboratorio perché dal nero fosse la luce. E ora Pepi è nella luce, quella luce che ha cercato e accolto per tutta la vita.

​Pepi Merisio: note biografiche

Pepi Merisio nasce il 10 agosto 1931 a Caravaggio (Bg) e muore il 2 febbraio 2021 a Piazza Brembana (Bergamo). Comincia a fotografare nel 1947. Nel 1956 inizia la collaborazione con il Touring Club Italiano e in seguito con numerose testate: Camera, Du, Photo Maxima, Pirelli, Look, Famiglia Cristiana, Paris Match e tante altre. Nel 1964 pubblica su Epoca il grande reportage Una giornata col Papa, avviando così un lungo rapporto di lavoro e di amicizia con Paolo VI, seguendolo in tutti i suoi viaggi apostolici nel mondo. Da questo momento, mentre continua la collaborazione con riviste internazionali (celebri i tre numeri monografici di Du: “Vaticano”, “Siena” e “Italia cattolica”) avvia una intensa attività editoriale. Nello stesso 1964 gli viene attribuito il Premio nazionale di fotogiornalismo, e nel 1965 ottiene il Premio internazionale di fotogiornalismo a Genova.

Caposaldo della sua attività di narratore per immagini è l’opera in tre volumi Terra di Bergamo, edita nel 1969. Da allora pubblica oltre un centinaio di libri fotografici e decine di mostre. con editori diversi, tra i quali Atlantis, Bär Verlag, Conzett & Huber, Orell Füssli, Zanichelli, Electa, Silvana, Bolis, D’Auria, Pubbliepi, Grafica e Arte, Lyasis ed Ecra, con cui sta curando la collana Italia della nostra gente, che ha raggiunto i 33 volumi. Per le editrici Bolis, Atlantis e Zanichelli pubblica undici volumi sulle regioni d’Italia, e otto volumi solo per la Bolis sulle terre marchigiane. Per il Centro Studi Valle Imagna ha curato: Per le antiche strade (2003), Un altro Paese (2005) e In valle Imagna (2009). Per la Lyasis, nel 2002, il volume Mi guarda Siena con gli scritti di Mario Luzi.

Pepi Merisio ha realizzato numerosi reportage All’estero: a partire dal 1964 in Arabia Saudita, quindi nel Sahara, per poi viaggiare nelle Americhe, in Africa e in Australia. Nel 1972 la Rai gli dedica una puntata della trasmissione Occhio come mestiere curata da Piero Berengo Gardin. Da ricordare le mostre: “Italia” alla Helmhaus di Zurigo per i cinquant’anni della Atlantis (1980); “158 fotografie” al Teatro Sociale di Bergamo (1985) poi portata a Palazzo Barberini a Roma (1986); “Il Duomo guarda Milano” all’Arengario di Milano (1986); “La Valtellina” alla Fiera di Milano (1988); e “La terra e l’uomo”, con Elio Ciol, al Meeting di Rimini (2007).

Nel 1980 Progresso Fotografico gli dedica un numero monografico; nel 1982 l’Editoriale Fabbri lo accoglie nella collana “I grandi fotografi” mentre è del 1996 il numero a lui dedicato da Foto Magazine. Nel 2007 la FIAF gli dedica un volume della collana “Grandi autori”, dopo averlo nominato nel 1988 “Maestro della fotografia italiana”. Nel 2008 il Ministero degli Affari Esteri ha incaricato Pepi Merisio di allestire la mostra fotografica “Piazze d’Italia”, esposta nelle principali capitali europee. Nel 2010 viene allestita, per la Regione Lombardia, la mostra “Ieri in Lombardia” nel grattacielo Pirelli a Milano. Nel 2011 è invitato alla 54a Biennale di Venezia; nello stesso anno è a Chieti con la mostra antologica “L’Abruzzo nell’Italia di ieri”.

Nel 2015 hanno luogo le due mostre “Custodire la presenza”, per la Misericordia Maggiore di Bergamo, e “Genti di Valtellina”, per il FAI di Sondrio. Nel 2016 l’editore Contrasto gli dedica la grande monografia Pepi Merisio. Terra amata. Fotografie 1952-2015, a cura di Giovanni Gazzaneo, con testi di Cesare Colombo, Roberto Koch, Ferdinando Scianna. L’ultima grande mostra dedicata a Pepi Merisio è “Guardami”, a cura del figlio Luca, nel 2019 a Bergamo.

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