mercoledì 13 febbraio 2019
Una canzone rap, scritta dai ragazzi minori stranieri non accompagnati, accolti nello Sprar di Bologna, racconta le loro speranze e i loro sogni
Benkelema: il rap dei minori dello Sprar di Bologna per «stare in pace insieme»

Scorrono i nomi di una cinquantina di ragazzi nei titoli di coda del video di "Benkelema" (che in lingua bambara vuol dire 'pace, stare insieme come fossimo un'unica persona'), il rap nato all'interno del laboratorio di inclusione culturale Lic tenuto da Irene Olavide per la Fondazione Ceis.

Ibra, Hadi, Princewill, Adam, Dawda, Ousman, Nasir, Boubacar, Ceesay... Sono tutti minori stranieri non accompagnati accolti nelle comunità della cooperativa sociale Ceis Arte, che per 6 mesi hanno partecipato agli incontri con l'insegnante di italiano L2. È stata Irene a volerli nominare e ricordare tutti, anche se nel video si vedono solo 15 ragazzi e a cantare sono in quattro.

"Siamo qui per vivere e amare, non solo per crescere e studiare", canta Princewill, 17 anni, originario della Nigeria. Gli fa eco Modou, stessa età, arrivato dal Gambia: "Voglio cambiare la parola razzismo, perché è cattiveria e solo egoismo". Hanno scelto il rap per raccontare chi sono e cosa vogliono. "Perché così la gente, se ci conosce, non avrà più paura di noi, capirà che siamo uguali". Il 13 febbraio alcuni di loro, sia cantanti che autori, presentano il frutto di questa creazione collettiva al convegno "Infanzia migrante", nelle aule universitarie di Scienze dell'educazione di Bologna, all'interno del festival della rete delle biblioteche specializzate, dedicato al tema "Terre promesse. Migrazioni e appartenenze".

"La nascita del nostro rap è stata un processo lungo, dovuto a una serie di circostanze", racconta Olavide, di formazione musicista e cantante. "Mi sono trovata in classe ragazzi che mi portavano dei testi, alcuni avevano delle competenze musicali. A questo si è aggiunto che amo questa forma di linguaggio e non era il primo rap che scrivevo, l'anno precedente una canzone nata in un altro laboratorio aveva vinto un premio che aveva molto gratificato i ragazzi". In quel caso il tema era dato dall'esterno ed era il cibo. Questa volta è nato all'interno del laboratorio e ha portato a "Benkelema".

"In lingua bambara vuol dire 'pace, stare insieme come fossimo un'unica persona'", spiega l'insegnante, che sottolinea come quella bambara non fosse la madrelingua di tutti: "Alcuni parlavano la lingua bambara, non i ragazzini albanesi, non quelli magrebini o di altri Paesi dell'Africa subsahariana in cui non si parla. Ma a un certo punto hanno scelta 'benkelema' come la parola che identificava quello che loro volevano esprimere".

Il resto della canzone, invece, è in italiano ed esprime il desiderio di stare insieme in pace, rigetta il razzismo e individua il "male" come una condizione di passaggio.

Olavide spiega ai partecipanti che la scrittura collettiva è "un momento di grande condivisione, affetto, empatia". "Faccio capire ai ragazzi che quello che realizziamo insieme fa parte della loro crescita, è una ricchezza che mettono nella loro valigia per continuare - racconta -. Alcuni di loro continuano a scrivere anche autonomamente e mi contattano per avere consigli, anche dal punto di vista umano. Non ho mai avuto la sensazione che qualcuno potesse rimanere deluso. È successo a volte che qualcuno partisse in quarta, ma nessuno si è mai montato la testa".

CHE COSA LI ASPETTA UNA VOLTA USCITI DALLO SPRAR?

Alcuni dei giovanissimi migranti che hanno scritto e cantato "Benkelema" sono appena diventati maggiorenni, altri stanno per diventarlo. "Il progetto Sprar minori va fino ai 18 anni e 6 mesi", ricorda Giovanni Mengoli, presidente del Consorzio Gruppo Ceis. "Alcuni dopo hanno la possibilità di transitare allo Sprar adulti, altri invece a quel punto devono uscire. Tutto questo è complicato dalla legge nuova, che rende più difficile l'uscita dai percorsi e l'integrazione". Mengoli si riferisce al fatto che la legge voluta dal ministro Salvini ha ridotto fortemente il permesso per motivi umanitari. "Quel tipo di permesso, della durata di due anni, spesso permetteva di scavallare il compimento della maggiore età e comunque consentiva di soggiornare regolarmente senza dover dichiarare di avere un lavoro. Ora, per chi non può più ottenere la protezione umanitaria, i 18 anni diventano una dead line: per avere il permesso di soggiorno serve un documento che attesti l'occupazione, bisogna avere in mano una busta paga. Prima i ragazzi avevano più tempo per sistemarsi ed essere un po' più solidi. Ora, se stai facendo un corso per diventare idraulico, quando diventi maggiorenne devi sospendere e darti una mossa a cercare lavoro".

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