mercoledì 7 agosto 2019
Istituito un centro operativo congiunto per gestire la zona di sicurezza. Ankara: «Sarà un corridoio umanitario per favorire il rientro dei profughi»
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Le prime avvisaglie erano nelle dichiarazioni del ministro della Difesa turco, Hulusi Akar, che definiva «positivi e piuttosto costruttivi» i colloqui in corso con la delegazione statunitense. Poi, come a ribadire in modo perentorio le condizioni per una intesa, giungeva il severo monito ad Ankara del segretario della Difesa Usa, Milke Esper, – ieri in volo verso Tokyo – che definiva «inaccettabile» una eventuale offensiva militare turca nel Nord della Siria, ipotesi che Washington si diceva pronta a «impedire». Poche ore dopo, bruciando i tempi, l’annuncio: Turchia e Usa hanno istituito un centro operativo congiunto «per coordinare e gestire l’applicazione della zona sicura con gli Usa». La Difesa turca sottolineava che le due parti hanno deciso di «applicare senza ritardo le prime misure destinate a eliminare le preoccupazioni turche». La «nuova fase» di impegno in Siria – annunciata solo lunedì dal presidente Recep Tayyip Erdogan – pare dunque essere già avviata: «È la nostra massima priorità di asciugare il pantano del terrore che c’è nella Siria settentrionale», aveva affermato il capo di Stato turco.La “safe-zone”, precisa l’ambasciata americana in Turchia, «diventerà un corridoio umanitario per favorire il rientro dei profughi», ha spiegato l’ambasciata americana in Turchia, aggiungendo che c’è l’accordo anche per la «rapida implementazione di misure che vadano incontro alla preoccupazioni della Turchia sulla sicurezza». Un chiaro riferimento alla presenza delle milizie curde nella zona. I turchi vogliono il controllo, in coordinamento con gli Usa, di un’area profonda circa 40 chilometri a est del fiume Eufrate, e soprattutto che le forze curde non siano presenti. Ankara considera i curdi dello Ypg, le milizie del Rojava (il Kurdistan siriano) che finora hanno combattuto contro Assad sostenuti dagli Stati Uniti, un gruppo terroristico allineato ai ribelli del Pkk in Turchia. Ed ha minacciato di attaccare la zona se non si fossero ritirati.L’intesa sulla “safe-zone” con la Turchia potrebbe essere il primo passo di un “passaggio di consegne” più ampio fra Ankara e Washington in Siria dopo che a partire dallo scorso dicembre l’amministrazione Trump ha più volte annunciato l’intenzione di ritirarsi dalla Siria. Il disimpegno totale degli Usa dalla regione, oltre che lasciare le milizia curde del Rojava prive del loro storico alleato, lascerebbe la Russia, con Iran e la stessa Turchia, a gestire il dopoguerra siriano di intesa con il regime di Assad. Una ipotesi che avrebbe inevitabili ricadute sulla regione di Idlib, dove si ammassano due milione di profughi-ribelli, a poche decine di chilometri dal confine con la Turchia.Il disimpegno degli Stati Uniti avrebbe pure delle conseguenze immediate ad Est dell’Eufrate, la regione da pochi mesi “liberata” dal Daesh, ma dove restano ancora attive molte cellule terroristiche jihadiste. Un recente rapporto del Pentagono sostiene infatti che i jihadisti del sedicente Stato islamico stanno aspettando il ritiro delle truppe americane dalla Siria per tornare nel Paese e riorganizzarsi, mentre in Iraq si è già rafforzato. «Nonostante abbia perso il suo Califfato sul territorio, lo Stato islamico in Iraq e in Siria ha consolidato le sue capacità di ribellione in Iraq e negli ultimi tre mesi sta riemergendo in Siria», si legge nel rapporto.Il vice ispettore generale del Pentagono, Glenn Fine, ha precisato in una nota che i jihadisti stanno ora riorganizzando il loro organico e progettando attacchi contro le forze locali che hanno ancora bisogno di sostegno e addestramento e «non sono ancora in grado di sostenere operazioni a lungo termine, condurre operazioni multiple simultaneamente o gestire il controllo del territorio che hanno liberato». <+RIPRODUZ_RIS>

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