sabato 4 giugno 2011
Il presidente è ricoverato in ospedale: colpito dalle schegge in moschea con il premier, il governatore e il capo del Parlamento. Sette gli uccisi. In serata parla in televisione. Battaglia nella capitale Sanaa: 50 morti nelle strade. Gli Usa: fermate le violenze.
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Saleh, da 33 anni al potere. E le tribù dicono basta 
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«Ha superato i limiti». Quella del portavoce del governo yemenita, Tareq al-Shami, è una constatazione inconfutabile. La rivolta contro il regime – cominciata a gennaio – ha travalicato la sottile demarcazione che finora l’aveva confinata nella parte Nord della capitale Sanaa ed è dilagata a Sud, roccaforte del governo. Colpendo perfino il simbolo del potere per definizione: il palazzo presidenziale e il suo inquilino, il leader Ali Abdullah Saleh.Ieri, almeno due colpi di mortaio hanno sfregiato una parte della struttura, quella dove si trova la moschea. Lì, Saleh e alcuni fra i suoi fedelissimi sono stati sorpresi dall’attacco. Quattro guardie del corpo e forse anche un imam sono stati uccisi. In tutto, le vittime dell’assalto sarebbero sette. Il premier Ali Mujawar, il vice primo ministro Rashid al-Alami, il presidente del Parlamento Yahya al-Raiee, il governatore di Sanaa sono rimasti feriti. Colpito – ma secondo fonti ufficiali «in modo lieve» – anche il presidente Saleh. In un primo momento, la tv dell’opposizione aveva dato per morto il rais. Poco dopo, è arrivata la pronta smentita del governo e l’annuncio che Saleh avrebbe tenuto un discorso pubblico. Nel frattempo, il presidente è stato portato nell’ospedale del ministero della Difesa ma un comunicato ufficiale ha ribadito: «È in buone condizioni». Per dimostrarlo, il leader ha poi inviato un messaggio audio alla nazione, diffuso dalla tv di Stato, in cui condannava l’attentato compiuto da «bande di fuorilegge». Il governo ha accusato la potente tribù degli Hashed, guidata dallo sceicco Sadeq al-Ahmar. Del resto, nell’ultima settimana, l’azione di quest’ultima è stata determinante per far salire la tensione nella capitale. Gli Hashed, però, hanno negato. Anzi, il loro leader ha parlato di un complotto presidenziale per indurire la repressione. Il portavoce del fronte unito delle opposizioni – estremamente composito: ne fanno parte alcune frange dissidenti dell’élite e giovani indipendenti – si è detto felice che Saleh si sia salvato e gli augurato «pronta guarigione». Alcuni esperti hanno ventilato l’ipotesi che dietro l’agguato si nasconda Ali Mohsen, il generale ribelle, da aprile passato dalla parte dei manifestanti. Al di là delle ipotesi, una realtà è evidente: lo Yemen è sull’orlo di un conflitto civile. E a Sanaa la guerra è già esplosa. Prima dell’attacco a Saleh, migliaia di manifestanti avevano portato in corteo i 50 feretri dei dissidenti uccisi dalle truppe governative nell’ultima settimana. Almeno 155 persone sono state massacrate in dieci giorni. Anche nel resto del Paese la situazione è drammatica. A Taez, anche ieri le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco contro i manifestanti, uccidendone sei. Da domenica, i morti sarebbero una cinquantina. La spirale di violenza allarma gli Stati Uniti. Il Paese – il più povero del Medio Oriente – è uno dei “santuari” di al-Qaeda, la cui costola “Aqap” è radicata nel Sud. Nelle ultime settimane, il gruppo ha moltiplicato gli attacchi. Nel mirino in particolare i porti di Aden e Bab al-Mandab, terminali chiave per il commercio del petrolio. Nonostante i modesti giacimenti, lo Yemen confina col principale produttore di greggio, l’Arabia Saudita, e rappresenta un punto di snodo strategico per l’oro nero. Ecco perché la sua stabilità è fondamentale per gli Usa. Anche ieri la Casa Bianca ha condannato l’attacco al palazzo e chiesto la cessazione delle violenze. L’ultima speranza è la mediazione delle monarchie del Golfo. Queste hanno elaborato un piano di transizione che prevede il ritiro di Saleh.Il presidente ha più volte detto di essere disponibile a firmare ma all’ultimo ha sempre fatto marcia indietro. Due giorni fa ha di nuovo “teso la mano” ai mediatori che si sono detti, a loro volta, disponibili a riprendere il negoziato. Il rischio che lo Yemen si sgretoli prima di arrivare a una soluzione è, però, alto.
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