sabato 21 gennaio 2012
Wilmar Villar stroncato nel carcere di Santiago, aveva 31 anni. Da cinquanta giorni era in sciopero della fame dopo la condanna. Doveva scontare 4 anni per aver partecipato a sit-in pacifici. Protestava per la mancanza di libertà e la disoccupazione: il governo gli impediva di andare all’Avana per trovare un lavoro.
Per Cuba per Willar di Giorgio Ferrari
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​«Scusi ma devo parlare piano. Non voglio svegliare le bambine», sussurra la voce femminile che risponde al telefono. Le piccole Jormary e Wilmary – di 7 e 5 anni – sono le uniche ad aver chiuso occhio nella notte tra giovedì e venerdì nella modesta casa di Contramaestre, a cento chilometri da Santiago di Cuba. E ancora, nella tarda mattinata di ieri, nessuno aveva avuto il coraggio di svegliarle. «Non voglio essere io a dar loro la notizia», aggiunge la donna. A dire, cioè, alle bimbe che il padre, Wilmar Villar, si era spento alcune ore prima nell’ospedale di Juan Bruno Zayas di Santiago dopo 50 giorni di sciopero della fame. Aveva 31 anni. I prossimi quattro li avrebbe dovuti trascorrere nel carcere di Aguadores: il 14 novembre scorso era stato giudicato colpevole, in un processo lampo, dei reati di «resistenza alla forza pubblica» e «sovversione». Il tutto per aver partecipato a una serie di manifestazioni pacifiche di protesta contro il regime castrista. Una condanna politica, diceva Villar. Contro cui il giovane ha deciso di ribellarsi. Con l’unica arma di cui i carcerieri non potevano privarlo: il suo corpo. Dal 25 novembre, Wilman ha smesso di mangiare e di bere. Venerdì scorso, ormai in fin di vita, è stato ricoverato in ospedale. «A Maritsa, la moglie, non hanno neppure fatto vedere il corpo», continua la voce che rifiuta di dire il nome. «Cerchi di capire sto già correndo troppi rischi. Non ho niente a che fare con l’opposizione. Sono solo una cara amica di Maritsa e Wilmar», afferma prima di scoppiare a piangere. Poi aggiunge: «Da un momento all’altro possono entrare e arrestarmi. Sono venuta qui per occuparmi delle bambine mentre la famiglia è fuori, per le pratiche funebri. Ma a loro basta questo per accusarmi di essere una «traditrice» e sbattermi in cella. Stanno arrestando molta gente in questi giorni». A confermare la nuova ondata repressiva a Santiago è la nota blogger dissidente Yoani Sánchez. Segno che il regime ha paura e utilizza la forza per impedire che la seconda morte per fame di un oppositore in meno di due anni – dopo quella, il 23 febbraio 2010, del detenuto Orlando Zapata Tamayo – scateni un’ondata di proteste. Proprio ora che il presidente Raúl Castro, alla vigilia della visita del Papa a marzo, cerca di spingere sul pedale delle riforme. Economiche, innanzitutto. Per conferire al suo governo un “volto umano”, inoltre, il successore di Fidel ha poi varato un maxi-indulto che ha fatto uscire dalle celle quasi 2mila prigionieri. Misure “cosmetiche”che non intaccano la natura repressiva del sistema: alle lunghe detenzioni, il governo ha sostituito gli arresti brevi. Qualche giorno o addirittura ora, tanto per mantenere il dissenso sotto pressione. L’anno scorso ce ne sono state oltre 4mila. Certo non mancano le condanne esemplari. Come la vicenda di Wilmar Villar ha drammaticamente dimostrato. Tanto che l’opposizione – dalla leader delle Damas de Blanco, Berta Soler, al presidente della Commissione nazionale dei diritti umani, Elizardo Sánchez – ha attribuito immediatamente la responsabilità della sua morte al regime. Quello di Villar è un “dissenso della disperazione” più che di opposizione ideologica, come conferma José Daniel Ferrer, anche lui ex detenuto politico della “Primavera nera” e fondatore dell’Unión Patriótica a cui apparteneva Villar. «Quando si è avvicinato al movimento, lo scorso agosto, non aveva formazione politica. Era solo un giovane esasperato dalle miseria», dice Ferrer ad Avvenire. Nato e cresciuto a Contramaestre, un municipio sperduto nelle poverissime campagne cubane, Wilmar era uno degli oltre 1.3 milioni di disoccupati cubani. E come tanti era partito per l’Avana in cerca di opportunità. «Il regime vieta l’emigrazione verso la capitale. Per quattro o cinque volte, Wilmar era stato “beccato” dalla polizia, pestato, arrestato e riportato a Contramaestre – aggiunge Ferrer –. L’ultima, a luglio, aveva cercato di difendersi dalle botte degli agenti. Per questo, era stato denunciato ma la pratica non era andata avanti». La “giustizia” cubana si è accanita su Villar solo dopo che questo si era avvicinato all’Unión Patriótica. «Prima Wilard pensava che fosse giusto opporsi anche con la forza ai soprusi della polizia. Ha cambiato parere quando gli ho fatto leggere gli scritti di Gandhi. Da allora è diventato anche lui un dissidente non violento». Una scelta che il regime non gli ha perdonato. «L’hanno arrestato dopo un corteo. E gli hanno offerto la libertà se avesse lasciato il movimento», aggiunge Ferrer. Ma Wilmar ha rifiutato. E ha deciso – ha sottolineato Yoani Sánchez – di «trasformare il suo corpo in un campo di battaglia». Come Guillermo Fariñas, il dissidente che proseguì idealmente lo sciopero della fame di Orlando Zapata: andò avanti per 135 giorni e, incredibilmente, sopravvisse, ottenendo nel 2010 il Premio Sacharov. Ora è di nuovo in carcere: è il quarto arresto a gennaio. Nel 2010, il caso Fariñas suscitò giustamente lo sdegno internazionale. Pochi si sono accorti che una storia analoga si consumava nel cuore profondo della Cuba rurale, dimenticata dal governo e dal mondo. Fino a ieri. Ora, però, la costernazione generale – la prima ha esprimere sgomento è stata la Spagna – non può più salvare Wilmar Villar.
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