martedì 10 settembre 2019
Bagarre dopo il no del premier a sospendere Brexit. Respinta la richiesta governativa di voto anticipato. Approvata una mozione che impone di pubblicare il piano sul «no deal»
COMMENTA E CONDIVIDI

Nel giorno in cui Westminster chiude i battenti per effetto della sospensione voluta fino al 14 ottobre dal governo di Boris Johnson, l’aula del Parlamento per secoli santuario della democrazia moderna sembra l’assemblea d’istituto di un liceo. L’annuncio choc delle dimissioni di John Bercow, lo “scomodo” speaker della Camera dei Comuni che il governo stava già meditando di rimuovere, arrivano quasi in contemporanea alla firma della regina Elisabetta II alla legge che impone il posticipo della Brexit al 31 gennaio 2020. In massa, i deputati conservatori si alzano e abbandonano i banchi lasciando che Bercow, quasi in lacrime, riceva la standing ovation di un’opposizione che, visibilmente entusiasta, ne approfitta per organizzare l’ostruzionismo che fa slittare a tarda serata il voto sulla mozione del governo (respinta) per indire elezioni anticipate.

Tra i provvedimenti (non annunciati) messi d’urgenza all’ordine del giorno c’è la mozione presentata dall’ex Tory dissidente Dominic Grieve che, approvata con 311 «Sì» e 302 «No», obbliga il gabinetto a condividere con il Parlamento i dettagli del report «Yellowhammer» (martello giallo) sui rischi del «no deal» e ogni comunicazione, formale e informale, compresi i messaggi WhatsApp, intercorsa nell’entourage di Downing Street sulla decisione di sospendere il Parlamento. L’obiettivo di Grieve, incassato con soli 9 voti di vantaggio, margine molto più stretto rispetto alle votazioni della scorsa settimana, mira a portare al «patibolo» tutti i collaboratori più stretti di BoJo, primo fra tutti il contestatissimo Dominic Cummings, il “Rasputin” della svolta estremista di Johnson.

È dunque guerra aperta. Nel frattempo, il Paese annaspa. Nonostante il «no deal» sia, adesso, escluso anche per legge, il conto alla rovescia verso la Brexit – 31 ottobre – è sempre più isterico. BoJo continua a perdere pezzi e, paradossalmente, a guadagnare consensi. Domenica sera si è dimessa anche la ministra del Lavoro, Amber Rudd, convinta che al premier non interessi lasciare la Ue con un accordo e che la gestione della purga dei 21 parlamentari Tory sia stata «un attacco alla decenza e alla democrazia». Tra tante opzioni che l’esecutivo dice di aver ricevuto per sostituirla, il premier ha scelto Therese Coffey, ex ministro dell’Ambiente.

Non è ancora chiaro come il premier intende muoversi nei prossimi giorni, dopo che la mozione governativa per le elezioni anticipate (la seconda, dopo quella affossata mercoledì scorso) è stata respinta con un sonoro «no». Di certo c’è, per adesso, è che da Downing Street non partirà alcuna missiva diretta a Bruxelles per chiedere l’estensione dell’Articolo 50 del trattato di Lisbona sul posticipo della Brexit. La posizione è, certo, ufficiosa ma ormai se ne parla senza neppure troppo pudore. Fantasiose le opzioni che vengono a galla per mettere BoJo nelle condizioni legali di non rimandare il divorzio da Bruxelles. I tecnici azzardano l’idea che il premier possa scrivere due lettere, una a distanza ravvicinata dall’altra: una per chiedere il posticipo, come stabilisce la legge Benn appena entrata in vigore, e un’altra per revocarla.

Opzione remota, si spera, che farebbe saltare i nervi di un’Europa già molto provata. «Non ricominciamo daccapo ogni tre mesi» ha sbottato domenica il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, in un’intervista radiofonica. «Allo stato attuale delle cose – la risposta a un rinvio sarebbe no». Molto tese anche le relazioni con l’Irlanda, il Paese da cui dipende, nei fatti, la risoluzione dell’annoso problema del «backstop», il confine mobile tra Belfast e Dublino. Dopo un faccia a faccia di mezzora, ieri, tra Johnson e Leo Varadkar, primo ministro irlandese, è stato diffuso un gelido comunicato congiunto a confermare uno scambio di vedute «costruttivo», benché «a uno stadio iniziale», nonostante le «significative divergenze in alcune aree». In pratica un flop che tuttavia non esclude nuovi incontri bilaterali in «un futuro ravvicinato».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI