domenica 5 giugno 2022
Respinte a una trentina di chilometri dalla città le truppe di Mosca continuano ad attaccare senza sosta le piccole comunità circostanti In gioco c’è il corridoio per il Donbass
Il recupero delle salme dei soldati russi caduti, il 19 maggio scorso, nel villaggio liberato di Mala Rogan nella regione di Kharkiv

Il recupero delle salme dei soldati russi caduti, il 19 maggio scorso, nel villaggio liberato di Mala Rogan nella regione di Kharkiv - Ansa

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«Le sembra finita?», grida Yani mentre istintivamente abbassa la testa. Il frastuono aleggia nell’aria per qualche manciata di secondo. «Questo era un colpo di artiglieria, non sprecano i Grad, sono così vicini…». Quello che fino ad aprile era il suo agriturismo – “Dacha Saltov” –, è a ridosso del fiume Severskij Donec. Le truppe agli ordini del Cremlino sono sulla sponda opposta, nascoste nella foresta, ad appena cinque chilometri. Da là martellano Staryi Saltiv giorno e notte. «Era un posto bellissimo – racconta Yani mentre mostra le foto di una baita di legno immersa nel verde –. Avevo appena acceso un mutuo per ingrandirla. Ora è così», aggiunge, indicando l’unica parete rimasta in piedi.

«Tutto quello che mi è rimasto sono due cani, l’auto e un debito in banca. Nemmeno i vestiti che indosso sono miei. Gli abiti estivi sono bruciati insieme all’armadio», afferma con tono insolitamente asettico. «Non è calma. È che sono ancora sotto choc. La mia esistenza è “in pausa”, tutto si è fermato. Ricomincerà?», aggiunge l’ex insegnante. Yani abita nelle viscere di una fabbrica di mattoni nella “prom zone”, l’area industriale di Kharkiv con 81 compaesani. Buona parte l’ha portata lei stessa, guidando attraverso i campi, tra il 3 e l’8 maggio. Da allora, almeno una volta alla settimana, torna a Staryi Saltiv per consegnare cibo e medicine ai 1.500 rimasti. Meno di un decimo degli abitanti. Quasi tutti troppo anziani o disperati per decidersi ad andare.

Appena Yari arriva, uno dopo l’altro, i superstiti sbucano dall’interno delle casupole dissestate, prendono il pacco e rientrano subito. «Hanno troppa paura degli spari. Trascorrono il tempo nelle cantine», sottolinea Yani. Ufficialmente la «battaglia di Kharkiv» è finita il 13 maggio. L’esercito ucraino ha recuperato il controllo della città e della maggior parte dei villaggi circostanti. Staryi Saltiv era stata liberata una settimana prima. Nell’enclave, però, situata lungo la direttrice per l’autoproclamata repubblica di Donetsk, la guerra continua. Sono proprio i separatisti – dunque ucraini pro-Mosca – a sparare. E sono stati sempre loro ad occupare il villaggio per due mesi.

«Potevamo uscire solo per andare a prendere l’acqua e dovevamo mettere una fascia bianca al braccio. Dal 7 aprile, hanno tagliato luce, gas e Internet. Poi è stato chiuso ogni collegamento con Kharkiv e siamo rimasti isolati», afferma Lidia. Per lunghe settimane, i residenti hanno patito la fame. «Non c’era più cibo e non avevamo nemmeno i soldi per comprarlo dai villaggi vicini, perché non potevamo andare in città a ritirarli – aggiunge Nikita –. Una volta sono venuti dei russi a portare gli aiuti. Ma era solo uno show per la loro tv che filmava tutto». «Di giorno i separatisti ci facevamo scavare le trincee. Ma ci è andata meglio rispetto a Balaklea, una comunità non distante, ancora sotto occupazione – dice Elsa –. Là so che hanno preso molti uomini, so- prattutto i più giovani. E non sono più tornati». Nelle decine di comunità sparse tra il nord-est e il sudest di Kharkiv, lo scenario è drammaticamente simile. Respinti a una distanza inferiore ai venti chilome-tri, i russi e i loro alleati attaccano a ritmo incessante. In gioco c’è ben più di una manciata di villaggi satellite della seconda città dell’Ucraina. Il territorio è l’anello di congiunzione con il Donbass, su cui Putin punta ormai tutte le carte. Ruska Lozova, ad esempio, a quindici chilometri dalla russa Belgorod e a meno di dieci dalle postazioni di Mosca, è cruciale per bloccare l’accesso nord alla strada per Izyum e i relativi approvvigionamenti per i militari ucraini. Prima della guerra, nella comunità vivevano in seimila. Ora sono qualche centinaio. Forse meno. Da una settimana è impossibile raggiungerli a causa della pioggia di fuoco.

«Ormai è a tutti gli effetti la prima linea», spiega il soldato al checkpoint di Pyathikhatki, ultimo quartiere nord di Kharkiv prima di Ruska Lozova. Il villaggio è poco dopo le trincee. «È laggiù, dove si vede il fumo. Ma oltre non si può proseguire». «Le condizioni dei civili intrappolati nel fuoco incrociato sono drammatiche. L’accesso alle cure primarie è difficilissimo: i centri medici sono stati danneggiati o distrutti, i rifornimenti di farmaci interrotti», spiega Barbara Hessel, team leader a Kharkiv di Medici senza frontiere (Msf) che ha attivato un sistema di cliniche mobili.

«Cerchiamo di raggiungere dieci località alla settima- na ma non sempre è possibile. A Bersuki, nel nord, i residenti non vedevano un medico da un mese – aggiunge la dottoressa –. Ai problemi fisici, poi, si sommano quelli mentali. Abbiamo visitato centinaia di persone che soffrono d’ansia e attacchi di panico, inclusi molti bimbi». Dei 3mila residenti di Mala Rogan, una trentina di chilometri a sud di Kharkiv, è rientrata la metà. Tra loro Yulia, la proprietaria dell’emporio. Lunedì, ha riaperto la serranda del negozio, chiusa il 26 febbraio. Sugli scaffali, i prodotti sono ancora pochi e il frigo delle bibite mostra vistosi fori di proiettile. Ma i clienti non mancano. Tra un acquisto e l’altro si fermano sulla piazzetta di fronte.

«È bello ricominciare – dice –, ma non sarà facile dimenticare». A differenza di Bucha e della zona di Kiev, nei villaggi liberati di Kharkiv la gente non denuncia violenze sui civili da parte degli occupanti. Per tanti, è ancora troppo bruciante il “tradimento” della Russia, Paese con cui l’Est ha legami fortissimi. Oltre un terzo della popolazione è di origine russa e quasi tutti hanno un parente dall’altra parte del confine. Se ci si sofferma a parlare, però, qualche episodio emerge. «Hanno chiuso 200 persone nella scuola. Le hanno fatte inginocchiare e hanno scelto una ragazzina, la più giovane. L’hanno portata al piano di sopra. Non so che cosa le abbiano fatto ma poi hanno dovuto portarla all’ospedale. Da allora chi ha potuto ha mandato via le figlie», racconta Olga mentre acquista una confezione di farina. «A me hanno detto di sette civili uccisi – aggiunge Zoia, intenta a scegliere le mele –, ma chissà se è vero. Non voglio crederci, non ne ho la forza».

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