domenica 15 maggio 2016
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La retorica è sempre la stessa. Ed anche i colpevoli: gli Usa e il colombiano Álvaro Uribe. Sono loro a cospirare, nell’ombra, contro il Venezuela e il suo governo popolare. Parola di Nicolás Maduro. E, fin qui, nessuna sorpresa. Non è la prima volta che il presidente evoca lo spettro dell’«intervento esterno». A inquietare, però, è il fatto che il leader abbia deciso di alzare drammaticamente la posta. Decretando lo stato di emergenza sulla totalità della nazione. Non accadeva dal 1999, cioè prima dell’era Chávez. L’autoproclamato erede di Simón Bolívar, nemmeno nei momenti di maggior conflittualità, aveva fatto ricorso alla misura, al contrario ampiamente impiegata dagli esecutivi precedenti. Tra il 1960 e il 1998, ben ventuno di questi avevano varato lo «stato d’eccezione». Non farlo era stato uno dei vanti del defunto caudillo che, in tal modo, dimostrava di non aver «paura del popolo». Anche Maduro finora era andato cauto con le “leggi speciali”. Nel corso delle proteste del febbraio 2014, non vi aveva fatto ricorso. Aveva cambiato idea la scorsa estate, in occasione della crisi al confine colombiano. A quel punto, l’esecutivo aveva previsto uno stato di emergenza limitato, però, alla sola frontiera. Stavolta, il provvedimento è nazionale. L’escalation dimostra la gravità dell’attuale situazione. Il Venezuela scivola nel baratro. L’inflazione record al 180 per cento, la penuria di generi di prima necessità, il razionamento dell’energia, la rabbia montante sono ormai ingestibili. Mentre la campagna dell’opposizione per un referendum di destituzione del presidente conquista crescenti consensi. Nonostante gli spiragli di apertura della scorsa settimana, però, il ritiro non sembra un’opzione sul piatto per Maduro. Il quale ha colto la palla al balzo brasiliana per giocare quella che sembra una carta disperata. Giovedì, il Senato di Brasilia ha dato il via libera all’impeachment nei confronti della presidente Dilma Rousseff. Quest’ultima è stata, dunque, sospesa dall’incarico per 180 giorni. Subito la leader ha gridato al “golpe bianco”. Sebbene le due situazioni abbiano poco in comune e, in passato, i rapporti tra Brasilia e Caracas siano stati quantomeno tiepidi, Maduro ha fatto un’appassionata difesa di Rousseff, richiamando in patria il proprio ambasciatore in Brasile, Alberto Castelar. Il leader, in pratica, ha trasformato la situazione del Gigante latino nel “casus belli” per sferrare il proprio “attacco preventivo”. Agevolato, anche, da alcune previsioni, fatte venerdì da fonti di intelligence Usa e pubblicate dalla stampa di Washington, sull’impossibilità del presidente di arrivare alla fine del mandato. Più che in funzione anti-Usa, i poteri speciali appaiono un messaggio all’opposizione interna. Difficile non legare lo stato d’assedio alla crescenti manifestazioni convocate da quest’ultima a favore del referendum. Anche nella notte fra ieri e oggi erano previsti cortei a Caracas e nelle maggiori città, per chiedere la consultazione. La Mesa de unidad democrática (Mud) – raggruppamento che riunisce le varie componenti anti-chaviste – ha rifiutato di annullare le dimostrazioni dopo la proclamazione dello stato di emergenza. «Devo farlo per proteggere il popolo», ha detto il presidente in diretta tv dal Palazzo di Miraflores. La mossa di Maduro è stata doppiamente astuta. Non solo, il leader ha sfruttato a proprio favore la crisi brasiliana. Ha anche varato la misura il giorno in cui scadeva il pacchetto speciale per l’emergenza economica. Quest’ultimo – che prevede razionamenti e nazionalizzazioni – è stato prolungato per altri sessanta giorni. Lo stato di emergenza è passato come parte del rinnovo. «Ho deciso approvare un nuovo decreto di stato di necessità ed emergenza economica, in modo da avere il potere sufficiente per far fronte al golpe e la guerra economica, per stabilizzare socialmente la nazione, e resistere alla minacce nazionali e internazionali contro la nostra patria», si è limitato ad affermare il leader, senza specificare in che modo tali provvedimenti limiteranno le libertà individuali. Nemmeno si sa per quanto tempo resteranno in vigore. Il presidente ha ipotizzato per tutto il 2016, «fin quando non recupereremo la capacità produttiva». In teoria, in base alla Costituzione, le misure dovrebbero essere ratificate dal Parlamento. Dato che quest’ultimo è in maggioranza anti-chavista, il presidente è abituato ad aggirarne il consenso, ricorrendo direttamente alla Corte suprema, fedele all’esecutivo. È scontato, dunque, che lo stato di emergenza si farà. Tutti da vedere, al contrario, i suoi effetti. Di certo, i margini per la trattativa si stanno restringendo pericolosamente. La Chiesa, però, non rinuncia a lavorare per il dialogo. Il 24 maggio, monsignor Paul Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati, sarà in Venezuela. La sua, come ha precisato il segretario della Sala Stampa Vaticana, padre Federico Lombardi, non è una missione diplomatica. Monsignor Gallagher viaggerà per presiedere la consacrazione episcopale di monsignor Francisco Escalante Molina, nuovo nunzio nel Congo. L’arcivescovo non ha in programma un incontro con Maduro, ma ciò non esclude – sottolinea Il Sismografo – che possano esserci contatti con le autorità. Il leader dell’opposizione, Henrique Capriles, ha già detto di aver intenzione di chiedere a monsignor Gallagher di mediare perché il governo accetti una data per il referendum. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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