venerdì 17 marzo 2017
Due giudici di Hawaii e Maryland bloccano il secondo bando agli ingressi negli Usa perché «discriminatorio». La legge di bilancio taglia fondi ad Ambiente, Agricoltura, Giustizia e Welfare
Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump (Ansa)

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump (Ansa)

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Anche il secondo “muslim ban” di Donald Trump va a sbattere contro il no della magistratura. Il nuovo decreto, che blocca gli arrivi negli Usa da sei Paesi a maggioranza islamica (anziché i sette originari), non ha convinto almeno due giudici federali, delle Hawaii e del Maryland, che lo hanno bloccato a poche ore dall’entrata in vigore con uno stop esteso a livello nazionale. Entrambe le corti hanno sospeso la misura perché viola il dettato costituzionale contro la discriminazione religiosa, dal momento che colpisce solo nazioni a maggioranza musulmana.

Il giudice di Honolulu, Derrick Watson, ha citato nella sentenza le promesse di una messa al bando di tutti gli islamici fatte da Trump durante la campagna elettorale, per dimostrare l’intento discriminatorio della misura. La nuova bocciatura legale ha provocato una reazione furiosa del presidente americano. Quest’ultimo è tornato ad accusare i giudici di emettere «sentenze politiche», ha parlato di un «abuso senza precedenti» e ha promesso di riesumare il primo decreto e di «portarlo fino in fondo, cioè fino alla Corte Suprema» in nome della sicurezza. Perché, ha spiegato il presidente, a lui questo secondo testo “annacquato” che l’azione dei giudici l’ha obbligato a scrivere, in fondo non è mai piaciuto tanto.

Si prospetta dunque una battaglia legale lunga e senza esclusioni di colpi fra l’ordine esecutivo e quello giudiziario che ieri ha reagito con severità alle parole del tycoon. Gli «attacchi personali» e «le intimidazioni» rivolte da Trump contro «i nostri colleghi sono fuori dai limiti del discorso civile e convincente», ha ammonito un membro, di nomina repubblicana, della Corte d’appello di San Francisco che ha confermato la decisione del giudice di Seattle di bloccare il primo “travel ban” della Casa Bianca.

Il bilancio di Trump: +10% per le spese militari

Battaglia si annuncia anche in Congresso sul bilancio presentato ieri da Trump, che garantisce aumenti storici alle risorse per la sicurezza nazionale e la Difesa (54 miliardi di dollari in più per le spese militari, pari al 10 per cento) mentre propone tagli mai visti dalla fine della Seconda Guerra mondiale al resto della spesa federale, con una drastica riduzione per aiuti esteri, diplomazia, ambiente e programmi contro la povertà, oltre che dei fondi per la ricerca scientifica e la cultura.

Il testo della Finanziaria 2018, la prima targata Trump, è approdato ieri al Congresso, suscitando perplessità anche fra i repubblicani. La legge rispetta le anticipazioni circolate nei giorni scorsi: come ha riassunto ieri il presidente Usa in un tweet, si tratta di «un budget che mette la sicurezza al primo posto». Oltre agli aumenti per la Difesa, c’è un 7 per cento in più per la Sicurezza nazionale e un 6 per cento di incremento per i servizi ai reduci. Inoltre, circa 4 miliardi saranno impegnati quest’anno e il prossimo per costruire il muro al confine con il Messico, che Trump ha detto di voler mettere sul conto del vicino.

L’abbondanza per la sicurezza è compensata da accettate di circa un terzo al bilancio del dipartimento di Stato, di quello all’Ambiente (Epa), e di circa il 20 per cento al Lavoro, all’Agricoltura e alla Giustizia. Gli Affari sociali e l’Istruzione perdono circa il 15 per cento delle risorse a loro disposizione. I fondi nazionali per le arti e le scienze umane, nelle intenzioni dell’Amministrazione, dovrebbero essere aboliti e i finanziamenti per il National Institutes of Health – un centro di ricerca biomedica – sono stati tagliati di quasi 6 miliardi di dollari.

Una ridistribuzione che fa corrugare molte fronti in Congresso, dove anche parte dei repubblicani non condivide l’uso dell’accetta. E ieri anche la commissione intelligence del Senato, presieduta dal repubblicano Richard Burr, ha concluso che non c’è alcuna indicazione che la Trump Tower sia stata oggetto di sorveglianza da parte del governo americano di Barack Obama tramite intercettazioni: un’accusa mossa dallo stesso Trump e ripetuta a più riprese da membri del suo staff.

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