martedì 6 novembre 2012
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Un manager. No. Un politico dai modi manageriali. Nemmeno. Un uomo di parte, quello sì, nel cui volto si specchia suo malgrado mezza America, non tanto per quella sua fede incardinata su un’idea ancestrale di purezza (e condita – da bravo mormone – di un ineluttabile senso di persecuzione), bensì per l’orgoglio quasi disperato di incarnare un’alternativa a Barack Obama e a tutto ciò che il presidente e il suo partito secondo lui rappresentano: il falso idolo della modernità, la politica come elucubrazione cervellotica di modelli keynesiani, l’abdicazione dell’America al ruolo di grande potenza, l’utopia della green economy, per non dire di quel cripto-socialismo in cui la nazione infragilita e sedotta dalle sirene del welfare ha finito per insaccarsi. «Questa – dice – è l’America che non vogliamo».
Dall’altra parte dello steccato infatti c’è lui, Willard Mitt Romney, classe 1947, nato a Detroit e figlio d’arte, visto che il padre, George W. Romney fu governatore del Michigan e nel 1968 candidato alle primarie presidenziali (vinse Nixon, ma lo volle nel suo gabinetto) e la madre, Lenore, candidata al Senato nel 1970. Uno steccato che delimita un Paese molto difficile da rappresentare, perché sfugge alle usuali categorie con cui si cercare di raccontare l’America: non è infatti l’invisibile linea Mason-Dixon che un tempo separava ideologicamente e de facto il nord yankee dal sud dixie a distinguere i sostenitori di Romney da quelli di Obama, e nemmeno l’appartenenza etnica, nonostante un buon 60 per cento dei bianchi tradizionalmente voti repubblicano e una larga maggioranza di neri voti democratico. E non è nemmeno il ceto, a dispetto delle teatrali gaffes sul 47% di «parassiti che vivono alle spalle dei contribuenti e si lagnano di continuo», a marcare le distanze fra gli elettori del Grand Old Party e i democratici, visto che un vasto bacino di poor white (per dirla con Sherwood Anderson), di reduci di una middle class martoriata dalle tasse, dai debiti, da quello tsunami sociale chiamato “crisi dei mutui subprime” si aggrappa fiduciosa a questo imprenditore dal viso sfacciatamente americano e altrettanto sfacciatamente bianco. Un viso che ricorda alla un tempo predominante etnia Wasp (bianca, anglosassone, protestante) che il campanello della Storia è suonato da un pezzo e che i latinos finiranno per diventare la componente più numerosa della nazione. Tanto da far dire al Tea Party che «Barack Obama vuole la schiavitù dei bianchi». Fragorosa scempiaggine, che tuttavia alimenta la frustrazione e il malcontento dei black people, costretti «a essere bravi due volte» e a votare Obama nonostante il sogno sia finito. Romney, a sua volta, conta su un pubblico complice, oltre che spaventato.Che il ventenne Mitt, fresco di studi liceali s’imbarcasse in una missione in Francia per conto della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, che su una strada di provincia si scontrasse con un’automobile che veniva dalla direzione opposta e uno dei missionari che erano con lui perdesse la vita, che nel 1977 divenisse amministratore delegato della società di consulenza Bain & Co., che nel 1984 cofondasse il private equity fund Bain Capital, che nel 2002 organizzasse con impeccabile piglio imprenditoriale i Giochi Olimpici Invernali di Salt Lake City ai suoi elettori importa molto poco. Semmai ha colpito quella sua ostentata assenza dal proscenio della contestazione giovanile quando studiava in California a Stanford e quel remare nella direzione opposta alla controcultura degli anni Sessanta, tanto da organizzare una protesta nei confronti dei gruppi che manifestavano contro la guerra nel Vietnam ed approvare gli intensivi bombardamenti in Cambogia sulla Pista di Ho Chi Minh ordinati da Nixon. L’incidente automobilistico stesso non è paragonabile allo scandaloso infortunio kennediano di Chappaquiddick: semmai con il Massachusetts della tragica saga dei Kennedy ha in comune il fatto di esserne diventato governatore all’indomani dell’11 settembre e di aver governato bene, lui, mormone e repubblicano, nel feudo più inossidabile dei democratici e dei cattolici del New England.
Tutto in Mitt Romney ha qualcosa di seduttivamente arcano: la giovanile regula mormone (non si beve, non si fuma, non si prendono appuntamenti con le ragazze), il quarantennale matrimonio con la moglie Ann (che soffre di sclerosi multipla ma appare tuttora come una dignitosa first lady), l’americanissima aderenza a quel mai sopito manifest destiny (il “destino manifesto” che attribuisce agli Stati Uniti il compito di espandersi e di esportare la libertà e la democrazia), che oggi, striminzito come un dipinto cubista, si limita a reclamare il ripristino urgente della potenza militare americana dopo gli insuccessi di Obama in Medio Oriente e le tentennanti politiche conciliatorie nei confronti della Cina e della Russia. Inutile dire che all’americano medio non disgusta la ricchezza personale di Mitt Romney (stimata insieme con la moglie a quasi 250 milioni di dollari), nella quasi totalità parcheggiata in blind trust per sfuggire al conflitto di interessi. Il che non gli ha impedito di incassare 22 milioni di dividendi nel 2010 (1 milione e mezzo è stato donato alla Chiesa mormone), cifra circa mille volte superiore a quella che il Census Bureau (l’Istat americano) fissa come soglia limite della povertà. Ma all’uomo d’affari che è stato anche ministro ed economo della propria congregazione religiosa il tarlo della politica cominciava a rodere. Un po’ era la moglie Ann a sospingerlo, un po’ quell’edipo riaffiorante che spesso scolpisce il destino di tanti uomini. Ci prova nel 1994, correndo per il seggio del Massachusetts contro Ted Kennedy, personalità politica in declino nonostante l’augusta appartenenza alla Camelot bostoniana, puntando tutto sulla necessità del cambiamento e rifiutando – a dispetto del suo ingresso nelle file repubblicane – ogni parentela ideologica con Ronald Reagan o con George Bush. Ma Kennedy lo impallina sull’aborto: Romney si è lasciato scappare che l’America «ha bisogno di un aborto libero e sicuro». A dispetto dei sondaggi che lo vedono alla pari con il senatore democratico, Romney perde alla grande: 41 per cento contro il 58 per cento di Edward Kennedy. Ci riprova nel 2002 – forte del successo dei Giochi Olimpici Invernali – questa volta per la poltrona di governatore, dichiarandosi «un moderato con visioni progressiste», una sorta di variazione senza grandi differenze di quel social conservatism che sta prendendo piede presso l’elettorato repubblicano più illuminato e che due anni più tardi porterà George W.Bush a un’indiscussa rielezione. Questa volta Romney prevale sul debole candidato democratico. Per la sua campagna ha speso 6 milioni di dollari di tasca propria. Una cifra monstre per lo Stato, ma anche per la media nazionale. Niente a confronto di quello che spenderà per la corsa alla Casa Bianca. La prima volta ci prova nel 2008, correndo per la nomination del Grand Old Party. La spunterà John McCain soffiando sull’ambiguità dell’ambizioso ex governatore, sulla sua appartenenza mormone, sul vizietto di contraddirsi e di rimangiarsi certe scelte (Obama ne approfitterà a sua volta chiamandolo apertamente «bullshit maker», cacciaballe). Ma Mitt Romney impara dalle sconfitte molto più che dai successi imprenditoriali. Nel 2011 si candida di nuovo. Vuole correre per i repubblicani e battere Obama, «l’uomo del declino americano, della perdita di immagine internazionale, della disoccupazione e dello Stato assistenziale cripto-socialista». C’è molto del Tea Party nelle sue parole, e del resto il partito – che gli ha affiancato l’ultraconservatore Paul Ryan come <+corsivo>running mate<+tondo>, è ampiamente inclinato verso quel radicalismo anacronistico e vagamente anarcoide che Sarah Palin fece conoscere al Paese nella rovinosa campagna elettorale del 2008. I suoi concorrenti alle primarie, Newt Gingrich e Rick Santorum, finiscono per cedere. Alla convention di Tampa, Florida, viene incoronato ufficialmente.Fra i tanti difetti, Romney ha agli occhi dei suoi sostenitori un grande pregio: è un uomo del Novecento, laddove Obama è un uomo del terzo millennio. La differenza conta: l’intero Midwest è ancorato ai miti fondanti della tradizione, quella tradizione che i democratici hanno progressivamente smantellato fin dai tempi della Great Society di Lyndon B.Johnson e alla quale l’elettorato bianco – quello su cui i repubblicani al 65% possono davvero contare – disperatamente si aggrappa in mancanza di altri modelli e con davanti lo spettro della crescita impetuosa dei latinos, che nel 2050 saranno letteralmente raddoppiati e potrebbero sancire la morte per asfissia del partito. Logico dunque che Romney vellichi la grande paura dell’uomo bianco, promettendo lotta dura ai clandestini, leggi severe sull’immigrazione, diritto di chiedere le generalità sulla base dell’aspetto fisico (meglio: della razza) come in Arizona, coniugandole con il Marriage Act, la legge che difende la famiglia tradizionale, e dichiarando guerra al diritto di aborto (un voltafaccia che gli è costato qualche defezione), ai contraccettivi pagati dall’Obamacare, alle politiche neoabortiste delle Ong pagate dal governo federale.
Nella nostra ricognizione alla ricerca del cuore profondo dell’America ci siamo fatti l’idea che quello slogan non detto, quell’«Anyone but Obama», chiunque tranne Obama, che serpeggia trasversale nel ventre molle del Midwest, ma anche in Florida, in Virginia, persino nell’Ohio miracolato dalla ristrutturazione delle grandi case automobilistiche, sia il sentimento più diffuso in chi ha messo nell’early voting o metterà oggi nell’urna il nome di Mitt Romney. Si vota per lui soprattutto per non votare Obama, allo stesso modo in cui moltissimi – neri e ispanici, soprattutto – sceglieranno Obama turandosi il naso e voltandosi dall’altra parte. «Io rappresento l’intera nazione e vi prometto 12 milioni di posti di lavoro», è stato l’ultimo grido di guerra del mormone che scivolava all’indietro nei tanti contraddittori e a volte inattendibili sondaggi. Tra non molte ore vedremo quanti gli avranno creduto.
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