sabato 7 gennaio 2017
Sei giorni dopo la tragedia di Manaus narcos rivali si affrontano a Boa Vista. Al centro il controllo delle rotte della droga. «Prigioni sovraffollate e scuola di malavita» accusano i cappellani
Brasile: Un'altra strage in carcere: 33 morti
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Ancora 33 detenuti fatti a pezzi da altri prigionieri. Nel senso letterale del termine, a giudicare dai filmati diffusi sul Web. L’ultimo capitolo della guerra in corso tra le due principali gang criminali brasiliane – il Primeiro comando capital (Pcc) e il Comando vermelho – s’è consumato nell’istituto penitenziario di Monte Cristo, a Boa Vista, nello stato del Roraima. La terza peggior tragedia nella storia carceraria del Paese. La seconda risale ad appena sei giorni fa: a Capodanno, nella prigione di Manaus, sono stati assassinati in 56. A loro ha rivolto un pensiero di solidarietà papa Francesco nell’Udienza generale di mercoledì. La tragica frequenza mette in luce due fenomeni, connessi e in parte sovrapposti. Primo: le due potenti bande del narcotraffico sono in lotta per la conquista delle rotte della droga che si snodano lungo il nord-est. Da lì passano i carichi di cocaina diretti verso Usa ed Europa. Ecco perché, nonostante il Pcc sia radicato a San Paolo e il Comando vermelho a Rio de Janeiro, gli eccidi sono avvenuti in carceri di questa zona.

Un messaggio, nel codice mafioso, per terrorizzare il nemico. Stavolta, a Boa Vista, ad essere ammazzati sono stati esponenti del Comando vermelho: una vendetta per la mattanza perpetrata da quest’ultimo contro gli avversari a Manaus. Nello stesso carcere, a ottobre, erano morti almeno dieci detenuti del Comando: la strage aveva dato il via al conflitto. Le autorità avevano promesso di garantire la separazione fra i due gruppi, in modo che non ci fossero ulteriori problemi. Perché nulla è stato fatto? E qui si passa alla seconda questione, strutturale. Lo Stato non ha il controllo delle prigioni. «Già nel 2012, il Consiglio superiore della giustizia aveva denunciato il fatto che i penitenziari fossero nelle mani dei trafficanti. Non stiamo parlando di casi isolati, è il 99 per cento», rivela ad Avvenire padre Valdir João Silveira, coordinatore nazionale della Pastorale carceraria. La ragione è drammatica. «La violenza da parte delle autorità è tale che i detenuti si legano alle gang per sopravvivere.

Spesso, i soldi dello spaccio sono l’unico mezzo per comprare cibo e medicine, che lo Stato non fornisce», prosegue il sacerdote. In tale contesto, la politica brasiliana di “incarcerazione facile” alimenta la piaga del narcotraffico, invece di risolverla. «I penitenziari sono scuole di crimine», sottolinea padre Valdir. Nonché «strumento di tortura per i poveri», gli fa eco padre Gianfranco Graziola, missionario della Consolata e vice coordinatore della Pastorale. Con quasi 700mila prigionieri, il Gigante latinoamericano ha la quarta popolazione reclusa del pianeta, dopo Stati Uniti, Cina e Russia. Di questi – in base a dati ufficiali – il 60 per cento è nero, la quasi totalità sono giovani, il 75 per cento hanno a malapena la licenza elementare. Il 42 per cento, inoltre, è in attesa di giudizio. Risultato: il Paese vanta il record internazionale di sovraffollamento, a quota 147 per cento. «Entrano per un furto ed escono narcos. Se non vengono ammazzati in qualche scontro.

Come è accaduto a Boa Vista», afferma padre Gianfranco. Il sacerdote, per 15 anni, ha visitato la struttura ogni martedì. «Là, in una struttura per meno di 600 stavano in 1.200, ammassati in condizioni disumane». Di fronte all’emergenza, il governo di Michel Temer ha annunciato entro fine mese un nuovo piano di sicurezza. Il progetto prevede, oltre all’intensificazione della lotta al crimine, la costruzione di cinque nuove prigioni. «Proprio quello che non occorre. Ci vogliono misure alternative», conclude padre Ganfranco.

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