domenica 22 novembre 2020
Almeno 23 razzi si sono abbattuti sulla capitale: uccise 8 persone. Il Daesh rivendica. E il negoziato tra Usa e taleban non decolla
I tubi lanciamissili montati su un furgone e usati nel centro di Kabul per l'attacco

I tubi lanciamissili montati su un furgone e usati nel centro di Kabul per l'attacco - Ansa

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Anche questa volta si sono affrettati a negare ogni responsabilità, come era accaduto nello straziante attacco all’Università di Kabul che aveva aperto il novembre nero della capitale afghana. Di nuovo i taleban hanno dichiarato di non c’entrare nulla nell’attentato che, ieri mattina, ha squassato a morte Kabul, nell’ora di punta, con diversi razzi, pare 23, partiti da uno o più pick-up entrati in città. Almeno otto civili sono rimasti uccisi. Anche in questa occasione il Daesh, in un gioco mai chiaro delle parti, si è attribuito la paternità.

Nelle stesse ore, mentre tornava a circolare (a giorni di distanza dalle precedenti voci) la notizia della morte «per cause naturali» proprio in Afghanistan del leader 69enne di al-Qaeda Ayman al-Zawahiri (la cui presenza nel Paese confermerebbe il prosieguo dei rapporti tra le due organizzazioni), la delegazione taleban attendeva di incontrare il segretario di Stato Usa Mike Pompeo a margine dei colloqui di pace a Doha. Nella capitale del Qatar ancora si discute delle procedure a premessa dell’avvio formale dei negoziati, quando gli afghani vorrebbero solo sentire parlare di cessate il fuoco. «Sono passati due mesi dal primo incontro, ma, per essere franco, non vedo alcuna negoziazione in corso a Doha. E intanto non cala la violenza, anzi, il contrario» ci dice da Kabul Sami Mahdi, docente alla Facoltà di Politica e Pubblica Amministrazione dell’università della capitale, quella messa a ferro e fuoco per ore da un gruppo di terroristi, lo scorso 2 novembre.

Il professor Sami Mahdi ha perduto sedici studenti, quattordici in una classe e due in un’altra, trucidati dai terroristi. «Tutti giovanissimi, pieni di talento, provenienti da famiglie semplici, alcune di umili origini, ragazzi combattivi e pronti a lottare, perché non è facile essere ammessi al nostro ateneo. Quelle classi erano piene di giovani con grandi doti e passione, determinati a fare, un giorno, la propria parte per fare uscire il Paese dal caos. Avevano grandi sogni, ma anche il desiderio di vivere una vita normale». Al telefono il professor Mahdi si ferma, resta in silenzio, non riesce a continuare. Sul suo profilo Twitter ha postato alcune foto degli studenti scomparsi. Per ciascun viso, un aneddoto. In un post c’è la foto di Mariam, 21 anni: «Suo padre mi chiamava ogni tanto per chiedermi dei progressi della figlia. Mi ha telefonato di nuovo: ho avuto la conversazione più difficile della mia vita».

Come si può tornare in quelle aule, a lezione, dopo un attentato del genere, gli chiediamo: «È quasi impossibile, impensabile. È durissimo, eppure i docenti e gli studenti della nostra facoltà pensano che dovremmo trovare il coraggio necessario e restare saldi. Tornare in classe è l’unica azione che possa cambiare il corso della storia. Penso che questa generazione di ragazzi sia all’altezza, possa farcela, sia in grado di portare il Paese al cambiamento».

È scossa, confusa e non sa se proseguirà a insegnare Fatimah Hossaini, artista e docente di fotografia all’Università di Kabul. È rientrata dopo un periodo a Teheran, ma il suo arrivo è coinciso con l’attentato. Al campus ha scattato una serie di fotografie delle aule dove è avvenuto il massacro: muri crivellati, scarpe abbandonate, libri bruciati, sangue. Immagini lontanissime da quelle patinate a cui lavora di solito. «È stato straziante, anche adesso per me è difficile parlarne. Mi ha fatto male scattare quelle foto, perché l’università per me è sempre stata un luogo tranquillo, di pace. Alla base del mio lavoro ho sempre sentito la responsabilità di mostrare un’altra immagine dell’Afghanistan, quella di cui andare fieri, quella della bellezza, pur nel mezzo della guerra. Questo Paese non è solo morte e terrorismo ». Racconta di come, la prima volta in cui si è trovata in classe, discutendo con gli studenti delle idee da sviluppare, si è accorta che la maggior parte dei loro progetti artistici aveva tratti bui e oscuri: «L’ho trovato triste. Insegno fotografia di scena, e ai miei studenti ho spiegato come portare elementi anche irreali nelle inquadrature, per mostrare immagini diverse dalla quotidianità.

L’impatto di quelle lezioni è stato così forte che alla fine del semestre già si notavano cambiamenti. Ero felice di avere portato un po’ di speranza nei loro lavori, e nelle loro menti». Ora, dopo l’attentato all’ateneo e quello di ieri, le toccherà ricominciare tutto da capo.

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