martedì 19 dicembre 2017
La regione vive uno smarrimento generale. La Chiesa è in prima linea per costruire ponti: «Il muro contro muro non serve. Si cambi strada»
Manifesti elettorali nel centro di Barcellona. Il giallo è il colore simbolo della solidarietà con i leader indipendentisti arrestati (Ansa)

Manifesti elettorali nel centro di Barcellona. Il giallo è il colore simbolo della solidarietà con i leader indipendentisti arrestati (Ansa)

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A definire situazione e clima in Catalogna è un colore: il giallo, e non solo perché dopo il referendum del primo ottobre, l’intervento della polizia, le manifestazioni di massa, ora le elezioni politiche catalane di giovedì fanno stare l’intera Spagna – e l’Europa con lei – col fiato sospeso. Il giallo è infatti il colore scelto per la simbolica protesta contro gli arresti che hanno falcidiato il governo regionale dopo la controversa dichiarazione d’indipendenza di Carles Puigdemont, presidente della Generalitat catalana, riparato in Belgio per evitare il carcere e rendere più eclatante la protesta. Al fianco dei “presos”, i politici detenuti, spunta il giallo di coccarde al bavero delle giacche, nastri allacciati alle borse, spille sugli zaini, sciarpe allacciate, e poi i nastri su alberi e balconi, gli striscioni sui muri. Alle insegne catalane blugiallorosse si è aggiunto un vistoso tocco di colore che occhieggia tra i passanti, nelle strade, sulle case.

Non un moto popolare vero e proprio, ma il segnale visibile di un disagio profondo seguito alla reazione del governo centrale al voto referendario apparsa come una difesa inflessibile dell’unità nazionale che anche i catalani più pacati hanno vissuto come una specie di affronto. Una frattura forse incomprensibile a noi italiani, per natura portati a trovare sempre e comunque un’intesa, ma che nella testa e nel cuore dei catalani s’è fatta largo come uno stato d’animo montante e che ora ha preso la consistenza di un dato di fatto, quasi un punto di non ritorno. E se la tattica politica conosce comunque sempre i tempi supplementari, non è chiaro come si potrà sanare questa ferita profonda, diffusa, dolorosa che taglia la Catalogna come una faglia, con quelle macchie gialle affioranti come un sintomo febbrile che è impossibile ignorare.

Increduli per trovarsi in una situazione surreale (con un piede dentro e uno fuori dalla Spagna, additati come secessionisti, ormai detestati da una fetta crescente dell’opinione pubblica nazionale) i catalani sembrano vivere in un limbo, i discorsi costellati di domande senza risposta: come siamo arrivati a questo punto? Come andrà a finire giovedì? Cosa succederà dopo? «Il timore dell’ignoto potrebbe funzionare come un freno rispetto al sentimento diffuso di indignazione seguito ai fatti di ottobre – riflette Eduard Ibañez Pulido, direttore di una voce ecclesiale autorevole e rispettata come la Commissione nazionale Giustizia e Pace e insieme del suo ramo in Catalogna, catalano lui stesso –. Senza pronunciarsi per l’una o l’altra soluzione, le istituzioni e le associazioni cattoliche regionali sono favorevoli al diritto dei catalani di decidere il proprio futuro, un principio di autodeterminazione che si ritrova nel magistero sociale della Chiesa, ma non al prezzo di un trauma. Il muro contro muro non giova a nessuno, noi speriamo sempre in una proposta politica forte per costruire nuove relazioni tra Stato centrale e Catalogna su materie dirimenti come lingua, fisco o educazione. Certo, la vigilia elettorale non è il momento adatto per un’iniziativa di questo respiro, ma l’auspicio è che i partiti spagnolisti e quelli indipendentisti dopo le urne siano in grado di cambiare strada, di trovare un terreno comune».

Sorride, Eduard dietro gli occhialini da avvocato, ma si legge nei suoi discorsi pacati e ragionevoli il timore che, giunti a questo punto, il linguaggio della moderazione non sia quello preferito da chi ha la responsabilità politica di cercare un via d’uscita. Tra gente che nella regione locomotiva dell’economia spagnola è sempre stata tranquilla e pragmatica il direttore di Giustizia e Pace sente «frustrazione, tristezza, persino umiliazione». Pessime consigliere. Si pagano errori da entrambe le parti: la dura risposta di Madrid e la speculare determinazione indipendentista di Barcellona «malgrado un mandato popolare non così chiaro da giustificare un passo dalle conseguenze tanto deflagranti». Se pareggio sostanziale sarà giovedì – è l’esito più pronosticato – nessuno potrà piegare l’esito delle urne dalla propria parte, meno che mai chi già pensa a una repubblica catalana.

È la lettura di tutte le fonti della Chiesa locale, che chiede ascolto per la sua gente ma si pone come voce di equilibrio. Una linea difficile, profetica, che si fa chiarissima salendo a Montserrat, la millenaria abbazia benedettina cuore spirituale della Catalogna con la sua “Morena”, la Madonna nera che accoglie ogni anno due milioni e mezzo di pellegrini. «In ottobre ho detto che le porte dell’abbazia sono aperte per far dialogare le parti – dice l’abate Josep Soler, che fa intendere di non essere rimasto con le mani in mano durante le ultime settimane –. Non abbiamo cambiato idea. Perché più di giovedì, è importante venerdì...». Nel grande santuario tra le montagne l’“Escolanìa” delle voci bianche celebre in tutto il mondo ha appena concluso la Messa con il “Virolai”, la commovente serenata alla Madonna “Rosa d’Abril”, simbolo musicale di Montserrat. Vietato da Franco l’inno catalano (e l’uso della lingua), il “Virolai” diventò il canto della libertà negata. In questi tempi difficili i monaci cercano di tenere la Madonna al riparo da strumentalizzazioni, ma il cuore della gente vede oltre. E nella popolarissima melodia ognuno ripone la sua speranza, gli occhi all’“Alba naixent d’estrelles coronada”.

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