venerdì 21 ottobre 2022
La premier inglese si è dimessa dopo appena 44 giorni. La sua manovra ultraliberista non ha tenuto conto delle casse dissestate da Covid e guerra
Liz Truss

Liz Truss - Fotogramma

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«Che vergogna: il Regno Unito è diventato come l’Italia». Così si ironizzava nei giorni scorsi sui siti, negli scambi tra i deputati a Westminster e nei salotti della finanza. E, così, ha titolato anche il prestigioso «The Economist». Sotto accusa, in particolare, il disastro causato dalla manovra fiscale del governo di Liz Truss, che si è dimessa ieri, e dall’austerità annunciata a porvi rimedio.

La prospettiva di un lungo periodo di instabilità e cinghia tirata, che i britannici associano all’economia nostrana, era una «tragedia», ha sintetizzato un articolo del Sunday Telegraph, senza neppure la consolazione di «clima mite, ben vestire, buon cibo, caffè e spiagge baciate dal sole».

Il Paese, ancora ubriaco di gloria imperiale, quasi fatica a mettere a fuoco la profondità del baratro in cui è scivolato. Tantomeno ad ammettere che non è stata solo la guerra in Ucraina ad averlo scavato. Il fattore zavorra ha un nome ben preciso: si chiama Brexit. Il piano fiscale firmato da Truss e dal suo ex Cancelliere dello Scacchiere, l’amico Kwasi Kwarteng, è stato bollato come «quintessenza del manifesto post-Brexit» ispirato alla dottrina della crescita de-regolamentata.

Un capolavoro di «spavalda autostima», è stato detto, talmente carico di ideologia ultra liberale da apparire a tratti perverso. Non agli elettori Tory che hanno creduto alla favola di «meno tasse per tutti» raccontatagli da Truss già durante le primarie che, a fine estate, l’hanno incoronata leader del partito. Ma ai mercati. Il taglio delle tasse presentato il 23 settembre, manovra da 45 miliardi di sterline, ha fatto tremare i polsi agli investitori che, non avendo ricevuto rassicurazioni sulle coperture di bilancio, hanno perso fiducia nella capacità del governo di ripagare il debito e hanno cominciato a far traballare la piazza finanziaria.

Gli interessi sui prestiti sono schizzati trainando verso l’alto, a catena, anche quelli sui mutui. La Banca d’Inghilterra è dovuta intervenire due volte per stabilizzare i fondi pensione con un intervento di emergenza che il governatore, Andrew Bailey, ha chiarito di non essere disposto a ripetere. Il terremoto, di cui è stata vittima anche la sterlina deprezzata su dollaro ed euro, ha cominciato a riassestarsi appena il nuovo ministro delle Finanze, Jeremy Hunt, subentrato con il licenziamento in tronco di Kwarteng, ha dichiarato che la manovra era «quasi tutta cancellata».

Il danno, tuttavia, è stato fatto. È stato stimato, solo per fare un esempio, che, a partire da dicembre 2024, i mutui di cinque milioni di famiglie saranno più cari di 5mila sterline all’anno. Potrebbero volerci molto tempo per veder tornare tutti gli indicatori ai livelli di qualche mese fa. E non è tutto. Le dimissioni express della premier, con la credibilità evaporata della premier e dei Tory che l’avevano preferita a Rishi Sunak nella corsa alla poltrona abbandonata da Boris Johnson, lascia un alone di umiliazione difficile cancellare.

La durata della premiership di Truss, entrata e uscita a Downing Street nel giro di sei settimane, è associata nelle vignette dei magazine a quella di una lattuga. Da “Iron lady” a “Iceberg Lady”. Profilo caricaturizzato di un ceppo di insalata al posto di quella che doveva essere la nuova Margaret Thatcher. Si poteva evitare? Forse sì. Il progetto di fiscalità leggera è stato concepito nei think tank ultraliberali, come Institute of Economic Affairs e Adam Smith Institute, come strumento per accelerare la deregolamentazione predicata dalla Brexit.

Il «peccato originale», scrive Stryker McGuire sul Guardian, al centro della crisi odierna. Come è possibile, ci si chiede, che l’esecutivo abbia proposto al Parlamento una ricetta sperimentale per la crescita senza adattarla all’evidenza di casse dissestate dalla pandemia di Covid e dalla guerra tra Mosca e Kiev? È stata incompetenza o miopia ideologica? Truss, in parte, ha ammesso l’errore. «Ci siamo spinti troppo in là – ha dichiarato – troppo in fretta». L’economia britannica, va precisato, era rallentata da più di dieci anni. L’addio all’Unione Europea, sancito dal referendum del 2016, nasceva in parte da questa frustrazione.

Un «malessere post-imperiale», per usare le parole del laburista Tony Blair, che insinuava un vago desiderio di riconquistare, almeno nell’immaginazione, l’identità di una grande potenza azzoppata dalla crisi finanziaria del 2008. Brexit è diventata effettiva il 31 gennaio 2020 ma la promessa di ritorno allo splendore rimane per il momento disattesa. Il Paese è prossimo a una prolungata recessione con l’inflazione che, mercoledì, ha sfondato la soglia del 10 per cento. Il prezzo dei generi alimentari è salito quasi del 15 per cento ai livelli del 1980. I confini dell’isola, ancora, non sono meno porosi di prima. Il valore degli accordi commerciali negoziati negli ultimi due anni, poi, è irrisorio rispetto alla grandezza del mercato unico da cui ha preso le distanze. L’ambita intesa di libero scambio con gli Stati Uniti non è neppure all’ordine del giorno.

Da mesi, una catena di scioperi paralizza la nazione, invocando l’adeguamento degli stipendi all’aumento del costo della vita. Lo choc finanziario sta mettendo a rischio anche la promessa del ritocco agli assegni pensionistici che potrebbe trascinare nella miseria milioni di cittadini. Lo scenario, in sostanza, è quello di un disastro.

A fine settembre il Fondo Monetario Internazionale ha notificato il sorpasso dell’India sul Regno Unito nella classifica dei Paesi più ricchi del mondo per prodotto interno lordo. Batosta non da poco per Londra che si è vista strappare il quinto posto sul podio da Nuova Delhi, colonia britannica fino al 1947.

Non meno catastrofica è la politica. I Tory, al governo da dodici anni, sono un partito imploso, sfibrato da anni di divisioni tribali tra Leave e Remain, costretto a cercare di un nuovo un leader dopo, nell’ordine, David Cameron, Theresa May, Boris Johnson e Liz Truss. Quattro in sei anni. Nel frattempo, il consenso a favore dei conservatori è crollato nei sondaggi facendo registrare ai laburisti livelli mai visti. Secondo le statistiche di Redfield and Wilton Strategies la forbice che allontana i due poli è del 36 per cento con Labour al 56 per cento e Tory al 20 per cento. In caso di elezioni anticipate, ormai sempre più probabili, i blu rischiano l’estinzione.

Il disastro firmato da “Lady Iceberg”, altrimenti detta “Calamity Truss”, ha fatto del Regno Unito uno zimbello internazionale. Lo denunciano gli ambasciatori nel mondo ma è quello che si percepisce all’arrivo dall’estero di ogni nuovo irrituale commento. La premier britannica, ha sottolineato il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha commesso un «errore prevedibile». Intervistato dal Sunday Times, il primo ministro della Grecia, Kyriakos Mitsotakis, si è spinto persino a fare dell’ironia: se Londra ha bisogno di esperienza in materia di crisi, ha punzecchiato, «siamo qui pronti ad aiutare». Battuta che esorcizza il peso sopportato dal governo ellenico in dodici anni di austerità e vigilanza da Bruxelles. A esserne disturbati quanti, Oltremanica, continuano a credere che fuori dall’Ue si stia comunque meglio. La favola di Brexit non è ancora finita.

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