mercoledì 17 aprile 2013
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Io ero lì, proprio accanto a quell’albero. Dopo, ho voluto rivedere i video e le fotografie del luogo della prima esplosione, perché non riuscivo a convincermene. Ero lì pochi minuti prima. Oggi tutto mi appare come un pericolo scampato. Avrò bisogno di tempo per percepire la grandezza di questo miracolo.Sono arrivato a Boston da Segrate come supporter del mio amico Paolo. Ci siamo allenati a lungo insieme, ma un problema a un muscolo mi ha convinto a non correre. C’è un sito che consente di rintracciare un maratoneta in ogni istante del percorso: io mi sono collegato in modo da poter essere all’arrivo giusto in tempo per accogliere il mio amico. Ho calcolato che sarebbe arrivato intorno alle 15.20, ora di Boston. Sono sceso dall’hotel un’ora prima. Il Boston Common, l’enorme parco della città, era pieno di gente: c’erano gli atleti che avevano già terminato la gara, molti erano distrutti dalla fatica, tremanti, zoppicanti, ma tutti allegri. Felici. Era bella la presenza di questa moltitudine di persone. Sono arrivato lungo la linea del traguardo alle 15 meno 15. Ero esattamente lì, nel posto dello scoppio della bomba. Dopo, ho riconosciuto l’albero che mi dava fastidio con i suoi rami e mi impediva di vedere bene. Sono stato fermo 10 minuti, ma c’era troppa folla e ho deciso di scendere per qualche decina di metri lungo il rettilineo della corsa, dove c’era meno gente. Sono passati pochi secondi ed è scoppiata la prima bomba alla mia sinistra. Lo spostamento d’aria mi ha colpito la faccia. Dopo pochi secondi è scoppiata l’altra alla mia destra, a una settantina di metri da me. Se all’inizio la gente era attonita, la seconda esplosione ha scatenato il caos. Le persone scappavano da tutte le parti. Io avevo una via di fuga, una traversa tra due palazzi. Molta gente mi è caduta davanti. Una ragazza ha sbattuto violentemente la faccia sul marciapiede. Io sono medico, mi sono fermato per soccorrerla, l’ho girata ed era tutta insanguinata, ma un poliziotto mi ha detto che ci pensava lui.Quando rivivo quei momenti penso a quattro ragazzine di 18, 20 anni sotto l’albero, che aspettavano al traguardo un ragazzo con i cartelloni di benvenuto. Il ragazzo è passato tre minuti prima dell’esplosione, le ha riconosciute e insieme si sono allontanati. Potevano esserci anche loro, nell’elenco dei morti o dei feriti. Ho pensato al mio amico, che stava correndo. Con lo smartphone ho controllato: era al 37esimo chilometro, ancora distante, al sicuro. Ho chiamato casa, in Italia, e la moglie di Paolo, perché pensavo che le prima notizie sarebbero stati terrorizzanti. Nella mia professione di medico rianimatore sono abituato a prendere decisioni che cambiano la storia delle persone. Il peso del mio lavoro è legato proprio alla necessità di compiere scelte fondamentali, decisive. Ma in quel momento, a Boylston Street, qualcuno ha scelto per me. Non so a quante persone succeda di passare così vicino alla morte o a qualcosa che le assomiglia. È un’esperienza difficile da razionalizzare. Quando sono partito da Milano, in me c’era un po’ di rammarico per non poter correre a causa di un piccolo infortunio. Essere diventato uno spettatore della maratona mi ha esposto ancora di più al pericolo. È come se ci fosse un disegno che mi portava lì e un secondo dopo, con un cambio di programma, mi ha salvato la vita. Sono stati pochi secondi a decidere della mia vita o della mia morte. Sì, ho la percezione di essere un sopravvissuto. Ho bisogno di riflettere, di cercare dentro di me qualche spiegazione di questo flash così drammatico della mia vita.
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