venerdì 1 gennaio 2010
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"Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe essere l'ultimo, ma non ci pensi". Nemmeno due mesi fa Matteo Miotto, l'alpino ucciso in Afghanistan, raccontava così la tensione delle ricognizioni a bordo del Lince nella valle del Gulistan in una toccante lettera scritta poche settimane dopo l'agguato in cui, il 9 ottobre, erano stati ammazzati quattro alpini del suo stesso reggimento, il 7/o di Belluno."La testa è troppo impegnata a scorgere nel terreno qualcosa di anomalo - spiegava Matteo -, finalmente siamo alle porte del villaggio... Veniamo accolti dai bambini che da dieci diventano venti, trenta, siamo circondati, si portano una mano alla bocca ormai sappiamo cosa vogliono: hanno fame... è un via vai di bambini che hanno tutta l'aria di non essere lì per giocare... Quel poco che abbiamo con noi lo lasciamo qui. Ognuno prima di uscire per una pattuglia sa che deve riempire bene le proprie tasche e il mezzo con acqua e viveri: non serviranno certo a noi. Che dicano poi che noi alpini siamo cambiati...".Nella lettera - pubblicata nella sezione del sito del Gazzettino dedicata alla brigata Julia in Afghanistan e letta pubblicamente in occasione della festa delle Forze armate, il 4 novembre, nella sua Thiene - l'alpino ringraziava in Italia "chi ci vuole ascoltare sempre e non ci degna del loro pensiero solo in tristi occasioni, come quando il tricolore avvolge quattro alpini morti facendo il loro dovere". E soprattutto raccontava cosa significa fare il soldato in un avamposto del Gulistan."Come ogni giorno - scriveva - partiamo per una pattuglia. Avvicinandoci ai nostri mezzi Lince, prima di uscire, sguardi bassi, qualche gesto di rito scaramantico, segni della croce... Nel mezzo blindo, all'interno, non una parola. Solo la radio che ci aggiorna su possibili 'insurgents' avvistati, su possibilizone per imboscate, nient'altro nell'aria. Consapevoli che il suolo afgano è cosparso di ordigni artigianali pronti ad esplodere al passaggio delle sei tonnellate del nostro Lince".Matteo aveva anche parole di grande comprensione e ammirazione per la popolazione afghana. "Questi popoli di terre sventurate, dove spadroneggia la corruzione, dove a comandare non sono solo i governanti ma anche ancora i capi clan, questi popoli hanno saputo conservare le loro radici dopo che imigliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case: invano. L'essenza del popolo afghano è viva, le loro tradizioni si ripetono immutate, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre. Allora riesci a capire che questo strano popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi". Nella lettera c'è poi lo spirito alpino, quello che faceva tornare Miotto a ripensare ai suoi dialoghi sulla guerra con il nonno. "Mi ricordo - scriveva - quando mio nonno mi parlava della guerra: 'brutta cosa bocia, beato tì che non te la vedarè mai...' Ed eccomi qua, valle del Gulistan, Afghanistan centrale, in testa quello strano copricapo con la penna che per noi alpini è sacro. Se potessi ascoltarmi, ti direi visto, nonno, che te te si sbaia...".
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