sabato 18 giugno 2022
Blitz a sorpresa del presidente «nell’altro Donbass». Il vallo del sud è cruciale per i russi che martellano senza sosta
Il presidente Volodymyr Zelensky tra i militari e i medici ieri all’ospedale di Mykolaiv

Il presidente Volodymyr Zelensky tra i militari e i medici ieri all’ospedale di Mykolaiv - Ansa

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Per vincere una guerra servono anche i cerotti. «Bende, farmaci di primo soccorso, fiale di antibiotici, litri di disinfettante». Non ce n’erano abbastanza, racconta Anatoly, addestratore di cani venuto al fronte tra i soccorritori volontari. «Ma ora dall’Europa ce ne mandate in quantità e queste ci servono quanto le armi», dice mostrando le siringhe di adrenalina e il Kalashnikov vicino al posto di guida.

L’altro Donbass è qui, tra Kherson e Mykolaiv e conta quasi più delle regioni dell’Est che Putin si è di fatto annesso. Questo è il vallo del sud, l’ultimo argine sul fiume Dnepr prima dell’invasione di Odessa. Il presidente Zelensky è arrivato fino a qui, a sorpresa, il giorno dopo l’ennesimo attacco a colpi di missili sulle abitazioni civili. Non si era mai recato così vicino alla linea del fuoco. «È importante che siate vivi. Finché sarete vivi c’è un forte muro ucraino che protegge il nostro Paese», ha detto il leader ai militari. Un incoraggiamento per chi va al fronte. E anche un avvertimento a Putin: da qui non si passa. Se andasse diversamente, toccherebbe a Odessa e dell’Ucraina non resterebbero che pagine di storia. «Se cade Odessa, il nostro mare sarà russo», ha ripetuto anche ieri il sindaco di Mykolaiv, Oleksandr Senkevych. Quattro mesi di piombo e lutti, senza tregua.

La blindatura del furgone verde della Croce Rossa militare fino ad ora ha retto. «Non siamo mai stati oggetto di tiro diretto – riconosce il capitano medico – però i russi non hanno mai smesso di bombardarci neanche quando raccoglievamo i loro feriti». Curati e imprigionati, più spesso morti. Il distributore di benzina in aperta campagna, trasformato in primo soccorso e dormitorio, è il testimone diretto dei capovolgimenti di fronte. Una settimana fa qui si erano accampati i russi. Del loro passaggio restano le cisterne di carburante lasciate a secco e i loro mezzi corazzati ridotti in ferraglia.

Anche oggi è incessante il viavai sulla strada accessibile solo ai combattenti. Si va all’assalto del nemico con la Panda del nonno coperta di drappi mimetici, o con vecchi furgoni spinti a tutto gas. Perfino uno scuolabus giallo riadattato al trasporto truppe fa la spola tra la prima linea e Mikolayev, caricando volontari che devono affrontare con le armi e con i nervi l’ininterrotta sequenza di esplosioni. L’unica via asfaltata percorribile fino a Kherson, la porta d’accesso alla Crimea russificata, è stata chiusa alla circolazione. Ci passa solo chi corre al fronte a rinsaldare le linee.

Lungo il fronte armato di Schevchenkove i soldati organizzano una festa al nostro arrivo. Pane, salsicce e birra. Niente scorta, solo un divieto: «Andate dove volete, non fatevi male, e sui vostri giornali non mostrate ai russi la nostra artiglieria». Obici e cannoni non sono “made in Kiev”, e continuano ad arrivarne in quantità. Non trascorre un solo istante senza che da qualche parte non cada un colpo di mortaio, un missile, una granata lanciata a casaccio. Nelle prime sei ore segniamo più di trecento esplosioni, poi perdiamo il conto.

Ovunque voltiamo lo sguardo sembra non esserci un riparo. Una colonna di fumo qua, le schegge che sibilano a poca distanza, l’onda d’urto delle bombe che piega gli alberi e ribalta le barricate di sabbia. E i colpi di Kalashnikov sparati alla rinfusa, per disorientare chi sta dall’altra parte magari implorando che ad ogni raffica almeno un colpo vada a segno. Grilletto e pietas non sono cose da prima linea, dove i comandanti fanno calcoli strategici e i soldati contano i colpi a cui sono scampati e quelli che rimangono nel caricatore. Gli ucraini hanno l’ordine di riavvicinarsi a Kherson. Ma importa di più non permettere ai russi di tornare a ridosso di Mikolayv, bersagliata dai missili a maggiore gittata. Se la città cade, la vicina Odessa non avrà scampo e la partita sarà chiusa.

Sul fuoristrada di primo soccorso passano vite a pezzi. L’orrore della guerra è un incubo diuturno. Soldati senza più gambe a cui una trasfusione non basterà. Un artigliere saltato su una mina anticarro: quel che resta di lui è un fagotto annerito di porpora e brandelli. Tra poco morirà, come si muore in guerra: una medaglia alla memoria, e avanti un altro. Le radure sono trappole mortali. Residui inesplosi, incursori che provano a misurare le difese, cani randagi spaventati dalle esplosioni e perennemente arrabbiati.

Solo cento chilometri separano la grande preda dalla grande battaglia. Eppure sembrano a due emisferi di distanza. Solo venerdì, nel Teatro dell’Opera di Odessa i militari avevano approntato il bunker sotterraneo. Molti temevano che i russi avrebbero rovinato la festa costringendo l’orchestra sinfonica e il coro di una sessantina di voci a correre giù dal palcoscenico verso il rifugio, insieme al pubblico adeguatamente istruito. Invece nessun missile e nessun allarme hanno spezzato il momento della rinascita. In piena notte, però, due razzi sono stati distrutti dalla contraerea: puntavano sulla costa.

Bisogna spingersi verso la Crimea, in direzione delle trincee più avanzate, per misurare la portata della minaccia. La traversata nella campagna ucraina è una corsa a perdifiato con l’acceleratore sempre schiacciato, saltando sui dossi e inchiodando solo davanti ai frequenti check-point. La bassa velocità è la migliore amica di cecchini e artiglieri. È per questo che si stanno moltiplicando gli incidenti stradali mortali. Nella partita tra cacciatore e preda capita di schiantarsi contro i blocchi di cemento messi dall’esercito per ostacolare un’eventuale invasione. Lungo il tragitto si attraversano villaggi rasi al suolo senza alcuna ragione tattica, se non quella di sterminare il bestiame, terrorizzare i contadini e costringerli a scappare mandando in malora i campi. L’unico risultato ottenuto fino ad ora è quello di aver messo in fuga donne e bambini e far arruolare i braccianti nella Difesa territoriale.

A Mikolayev, il giorno dopo il bombardamento sulle case popolari, gli addetti municipali reagiscono alla barbarie ridipingendo le strisce pedonali. I pochi rimasti nel quartiere rimettono ordine e sgomberano le macerie. Sperando che i russi continuino a farsi sentire solo dal cielo, e non arrivino mai al piano di sotto.

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