mercoledì 23 novembre 2022
Intanto i missili continuano a cadere, colpiti un gasdotto e le infrastrutture elettriche. E i profughi cercano rifugio in aree meno disagiate
Militari ucraini in marcia sotto la neve

Militari ucraini in marcia sotto la neve - Forze territoriali di difesa Ucraina

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La prima nevicata ricopre ogni anfratto e non si capisce più dove sta la latrina e dove la trincea. Il “generale inverno” si è fatto annunciare mutando i campi in fango, le strade in trappole. Colonne di combattenti marciano per chilometri e spariscono nella bufera. Intanto i civili muoiono, a Zaporizhia come a Kherson, colpiti alle spalle mentre attendono gli aiuti umanitari.

Domani saranno nove mesi di guerra. Senza luce né gas il flusso dei profughi verso le zone meno disagiate è ripreso. A Odessa il centro per la distribuzione di indumenti, cibo caldo e l’assegnazione di un alloggio temporaneo è tornato alle code della primavera scorsa. Alcuni sono profughi per la seconda volta. «Eravamo rientrati a casa, a Mykolaiv - racconta una coppia - ma anche se adesso non arrivano più i colpi d’artiglieria e la città è minacciata solo dai missili, non abbiamo elettricità né riscaldamento. Non possiamo accendere neanche i fornelli, perciò siamo tornati, ma anche qui la situazione non è diversa».

La vita sulle prime linee è un inferno che i soldati sopportano scambiandosi pacche e sorsi di vodka fatta in casa. Ognuno ha la sua ricetta, «questa l’ha fatta mio padre, supera i 70 gradi», dice un giovanotto partito da Odessa con la divisa rammendata mentre osserva divertito la reazione al primo assaggio. La neve è nemica della guerra. Senza fare il baccano delle piogge, silenziosamente inzuppa gli esplosivi, riempie di ghiaccio le bocche dei lanciarazzi, squaglia le casse di proiettili, modifica il paesaggio, disorientando i battaglioni che non trovano più i punti di riferimento segnati sulle mappe. Nemica della guerra, ma buona alleata di chi si difende, perché le forze ucraine conoscono il territorio e spesso in prima linea c’è gente del posto. Contadini che del circondario sanno tutto e potrebbero chiamare gli alberi per nome. Sanno distinguere un dosso coperto dalla coltre bianca da una duna ghiacciata sotto alla quale si sprofonda. E sono già decine i mezzi russi ribaltati per aver preso male una curva o per aver creduto di imboccare una scorciatoia finendo invece in un fossato.

«Anche noi abbiamo un problema - racconta un comandante partigiano di Mikolayv -. Quando ci spostiamo lasciamo le tracce sulla neve e i droni russi ci individuano più rapidamente». È di ritorno da una missione segreta attraverso le linee nemiche. Dice che quando nevica serve che qualcuno faccia da lepre, correndo in direzioni insensate per moltiplicare i segni del loro passaggio e sviare l’artiglieria di Mosca. Che spara nel mucchio, senza l’alibi di non sapere che i proiettili cadranno tra civili. È successo di nuovo a Kherson, dopo che la sera prima una persona era stata uccisa e una decina sono state soccorse mentre sul selciato sono rimasti gli arti dilaniati. Ieri mattina i morti sono stati tre.

Anche ieri c’era coda in uno dei pochi saloni pubblici dove si fa a turno per ricaricare i telefoni e riconnettersi con il mondo esterno. I colpi arrivano dall’altra parte del Dnipro, che scorre intorno all’abitato, dove i battaglioni russi si sono asserragliati e le forze ucraine faticano a farli indietreggiare. «La granata ha colpito il gasdotto principale. La città continua a essere bombardata», ha confermato l’amministrazione militare locale che segnala numerosi edifici danneggiati.

Dietro alle bocche di fuoco russe vengono scavate trincee per chilometri, segno che Mosca proverà a costruire un vallo per tenere le posizioni e sbarrare il passo a un’eventuale manovra ucraina sull’unica rotta di terra verso la Crimea. I bombardamenti russi hanno colpito anche un centro di distribuzione di aiuti umanitari nella città di Orihiv, nella regione di Zaporizhia, uccidendo un volontario e ferendo due donne, ha dichiarato il governatore regionale.

Uno dei principali problemi logistici delle forze di occupazione è lo “smaltimento” dei cadaveri. Quelli dei civili eliminati e da far sparire, e quelli dei propri soldati trattati come zavorra che rallenta gli spostamenti. A Kherson da giorni si parlava di giganteschi falò andati avanti per mesi in una discarica cittadina, dove sarebbero stati gettati decine di corpi. Alessio Mamo (pluripremiato fotoreporter italiano del Guardian) con l'inviato Lorenzo Tondo è riuscito ad avvicinarsi all’area riprendendo resti di divise, elmetti anneriti, scarponi. Il timore delle forze ucraine non è solo che lì possano trovarsi dei resti umani, ma che l’intera area sia stata minata prima della ritirata.

Inverno e piombo desertificheranno le città più grandi e i villaggi più remoti. «Prevediamo che 2-3 milioni di persone in più lasceranno le loro case in cerca di calore e sicurezza. Affronteranno sfide sanitarie uniche, tra cui infezioni respiratorie come il Covid-19, polmonite e influenza e il grave rischio di difterite e morbillo nelle popolazioni non vaccinate», avverte una nota dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Kherson prima della guerra vivevano 283 mila persone, oggi neanche 100 mila. Intorno ci sono villaggi fantasma. Andriivka aveva 126 residenti, adesso zero. Anche a Krinichanka, Lozove, Sukhiy Stavok, a Klapaja e Kostomarove, non ci abita più nessuno.

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