mercoledì 1 giugno 2022
Parte della città. dove un terzo degli abitanti è di origine russa, è di continuo sotto il tiro dell'artiglieria russa. «Putin ci punisce perché gli resistiamo»
Un'immagine di Kharkiv da un appartemento sventrato dalle bombe

Un'immagine di Kharkiv da un appartemento sventrato dalle bombe - Reuters

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Infagottate in un giaccone grigio, Olha e Yelena siedono sotto il sole, indifferenti alla temperatura che sfiora trenta gradi. Circondate da borse, borsoni, valigie, sacchetti di varie dimensioni, le due donne – madre e figlia – tengono gli occhi fissi sul al portone del condominio al numero 78 di via Natalia Uzhiv. O meglio, a quello che, fino alla sera del 5 marzo, era il portone. Ora non c’è più, come buona parte dell’edificio. Del palazzone in stile sovietico resta una carcassa sforacchiata, su cui si susseguono finestre senza vetri e intonato bruciato.

«Non so sia stata una bomba, un missile, un razzo. Forse tutti insieme», dice Yelena, la più giovane, mentre Olha sembra assente. Gli occhi seguono un gatto nero intento ad annusare i bagagli. All’epoca, l’intera famiglia aveva già lasciato il sobborgo dormitorio di Saltivka, periferia est di Kharkiv.

La linea del fronte, dove sono ammassati migliaia di militari russi, dista meno di 25 chilometri. A portata di tiro, il quartiere è ininterrottamente sotto attacco dal 24 febbraio. Dei seicentomila abitanti che lo popolavano, ne resta a malapena il 15 per cento. Nei casermoni di via Natalia Urzhiv, costruiti per accogliere gli operai delle fabbriche della capitale industriale dell’Ucraina, non abita più nessuno.

«Noi siamo venute qui solo per prendere il resto delle nostre cose», afferma Natalia, mentre indica il cumulo di pacchi. «Quando è esplosa la guerra, siamo andate via di corsa, senza sapere dove. Abbiamo dormito per settimane nella metro di Kharkiv. Ora mio marito è riuscito ad affittare una casetta dall’altra parte della città. È piccola, ma ci stringiamo. Così possiamo portare quel che ci è rimasto. E prendiamo anche lui – aggiunge, rivolta al gatto nero –. Non è nostro, era del condominio, ma che facciamo, lo lasciamo qui?».

Su questa strada, simbolo della catastrofe di Kharkiv, domenica, ha camminato il presidente, Volodymyr Zelensky, nel primo viaggio fuori dalla capitale, per esprimere solidarietà alla gente ferita. Poche ore dopo, una pioggia di fuoco russo si è abbattuta su Saltivka. Il giorno successivo, un’altra. Nelle ultime 24 ore, tre persone sono state uccise nell’oblast di Kharkiv, 14 ferite. Tra loro una donna e un ragazzino di 12 anni.

Dopo venti giorni di quasi calma, dalla settimana scorsa, il fronte nord-orientale si è riacceso. Per alcuni analisti si tratta di una manovra diversiva per impedire a Kiev di concentrare le truppe più a sud, nel Donbass. Altri pensano che il Cremlino stia cercando una via alternativa verso Izyum e, da lì, a Kromatorsk.

Per la maggior parte degli abitanti, però, è una vendetta di Vladimir Putin per non essere riuscito a conquistare Kharkiv. I russi avevano preso il controllo di circa il 40 per cento della provincia quando la resistenza li ha fermati a una quindicina di chilometri dal capoluogo e, alla fine aprile, ha ripreso i villaggi intorno, strappando a Mosca il 10 per cento dei territori conquistati nell’oblast. Ma la città non è solo un anello di congiunzione fondamentale con il Donbass, è un simbolo.

Almeno un terzo degli abitanti è di origine russa: operai emigrati dalle province povere per lavorare nelle aziende che producono macchinari agricoli, pezzi di ricambio per gli aerei, attrezzi idraulici, ai tempi dell’Urss. Sempre il russo, e non l’ucraino, è la lingua abituale.

I giovani di Belgorod,, a 40 chilometri dall’altro lato del confine, in Russia, erano soliti studiare nelle Università di Kharkiv. I dormitori, che fino al 24 febbraio accoglievano oltre 20mila iscritti negli atenei cittadini, sono scassati e deserti. Come la facoltà di Agraria e il grande giardino botanico di Doluchivsk.

«Mio padre era di Kursk. In casa, ho sempre parlato russo. Ho moltissimi amici a Belgorod. Per questo non riesco a credere che possano averci fatto questo. Mi chiedo ancora se sia un incubo o la realtà», racconta Dmitrij mentre passa su quella che, fino a una settimana fa, era via Mosca e ora è stata dedicata «agli eroi di Kharkiv».

Donne e uomini che, a dispetto dei legami profondi, hanno scelto di ribellarsi a Putin. «Sì, a Putin. Quando sono arrabbiato insulto tutti i russi. Ma se ci penso bene so che anche il mio sangue è in parte russo. Non voglio dare la colpa a un popolo. Il responsabile è lui», sottolinea, il 35enne, impiegato in una ditta farmaceutica prima della guerra. Nonostante le origini – «o forse proprio per quelle», aggiunge – si è unito ai volontari che distribuiscono pacchi di cibo e medicine ai militari ucraini in servizio ai check-point e nei quartieri più colpiti.

Una tappa obbligata è Horizont, sobborgo urbano povero non lontano dalla strada per Izyum e per questo flagellato dai missili nel primo mese di conflitto.

Nell’ampio spiazzo di fronte ai condomini sinistrati, una folla di anziani attende disciplinata la consegna dell’unico pasto caldo quotidiano. «La luce è appena tornata e l’acqua va a singhiozzo ma qualche volta c’è. Il gas, però, non ancora. Non possiamo, dunque, cucinare», afferma Raissa, pensionata 70enne. Sulla mano, in arancione è indicato il turno, così che nessuno salti la fila. «Guardi lassù, era il mio appartamento», dice, indicando un cumulo di macerie all’ultimo piano.

«È stata l’aviazione, ci ha attaccato il 28 febbraio. Hanno appena trovato quattro corpi dei vicini sotto le macerie. Chissà quanti altri ce ne sono». Raissa e il marito dormono nello scantinato: «Non abbiamo altro posto dove andare». «A partire sono stati soprattutto i giovani – aggiunge Nadia, che ha rammendato il proprio appartamento per rimanerci –. Mia figlia ora è in Italia. Ma io dove posso andare?».

Seicento over sessanta popolano al momento il sobborgo, meno di un quarto dei residenti. Tutti escono dai palazzi martoriati quando inizia la consegna. Preso il pacco, però, le gente si ferma nelle panchine. «C’è il sole e questa mattina i russi non hanno attaccato, né qui né altrove. Di solito iniziano presto – dichiara Vlad –. Magari questa sera ricominceranno. Ma in guerra di vive e si soffre istante per istante».

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