martedì 3 gennaio 2023
Alla stazione, le Ferrovie hanno messo una grande lavagna dove le persone segnano i desideri per il 2023. La piccola Olga prende un gesso e scrive: «Pace per il mio Paese e per il mondo»
L’hotel Alfavito, nel centro di Kiev, parzialmente distrutto dai raid russi del 31 dicembre

L’hotel Alfavito, nel centro di Kiev, parzialmente distrutto dai raid russi del 31 dicembre - Ansa

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Non è scesa dal treno la piccola Olga. È venuta con la mamma fin nell’atrio della stazione centrale di Kiev per distrarsi. Prima tappa: l’albero di Natale davanti alla scalinata che porta ai binari. Olga sale sulla cyclette e inizia a pedalare. «Forza, forza…», incita la mamma. Perché deve accedere le luci fra i rami. In una città dove le bombe lasciano al buio migliaia di famiglie e l’energia elettrica è razionalizzata, anche un abete ricorda che siamo in tempo di guerra e che l’elettricità è un bene primario per sopravvivere. Poi è la volta della grande lavagna che le Ferrovie nazionali hanno sistemato vicino ai metal detector. «Lascia un pensiero per il 2023», si legge in alto. Olga prende un gesso e scrive: «La pace per l’Ucraina e per tutto il mondo».

A meno di cinquecento metri Ania ha in mano un martello con cui rompe ciò che rimane dei vetri alle finestre. Un’ala della casa è stata sventrata da uno dei tre missili russi che il 31 dicembre hanno colpito al cuore la capitale. «Per fortuna non c’ero», sospira nel giardino dove ha già ammassato i mattoni precipitati, i brandelli degli infissi, le ringhiere aggrovigliate. Il cratere lasciato dall’ordigno è lì di fronte, largo più di un metro, in mezzo a via Dokuchaevshay. E viene da domandarsi perché mai un razzo sia stato indirizzato verso una strada secondaria, in mezzo a condomini popolari e a due passi dalla pista da sci incastonata fra i casermoni di stampo sovietico che è una delle più popolari attrazioni dell’inverno cittadino.

Il nuovo anno comincia a Kiev fra il sogno di una tregua ancora lontana che Olga condensa nella sua invocazione di pace e il terrore unito alla rabbia per i missili e i droni che continuano a impossessarsi dei cieli della capitale e che seminano morte e distruzione, come lascia intendere il volto teso di Ania. La scorsa notte è stato il distretto di Desnianskyi, abitato residenziale sulla riva sinistra del fiume Dnepr che taglia in due la metropoli, a trovarsi accerchiato da dodici droni.

I militari ucraini li hanno abbattuti a colpi di mitraglia. Ma alcuni sono esplosi in volo. E gli appartamenti della zona sono stati investisti di schegge e detriti. Quando Oleg apre la porta di casa, al quinto piano, l’albero di Natale ha quasi tutte le palline spaccate. «Ecco il simbolo delle nostre feste», dice con un sorriso amaro. Il pavimento è un cumulo di vetri rotti e frammenti di legno.

«Ma ho trovato anche un resto di Shahed», aggiunge ricorrendo a una parola che tutti a Kiev usano per indicare i mini-velivoli kamikaze di matrice iraniana impiegati dal Cremlino. E mostra un pezzo d’acciaio bianco. «È uguale a quello che è stato fermato dai nostri il 31 dicembre. E sa che cosa c’era scritto sopra? “Buon anno” in russo», riferisce mentre fa partire un video sul cellulare. Ormai da una settimana tutte le notti sono accompagnate dal ronzio dei droni: pesante e agghiacciante.

«Anche noi siamo stati svegliati», spiega Oleg. Stuoli volanti che passano e che nessuno sa dove siano diretti. Spesso possono avere come bersaglio gli snodi energetici. Con l’intento di innescare continui black-out e mettere in ginocchio la capitale paralizzando anche il riscaldamento e l’acqua potabile. «L’Europa vi sosterrà in questo inverno con generatori, lampadine, rifugi e scuolabus», assicura via Twitter la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, parlando della telefonata di auguri al presidente Volodymyr Zelensky. Fra un mese, il 3 febbraio, ci sarà il nuovo summit tra i Ventissette e Kiev.

Resistere significa anche mostrare che una bomba non ha mai l’ultima parola. E allora il 2023 si apre a Kiev provando a cancellare le tracce degli attacchi più recenti. Come accade davanti all’hotel Alfavito centrato da uno dei missili di San Silvestro. L’angolo dell’albergo a cinque stelle non esiste più, crollato dal tetto al dehor. Una gru giunta in fretta e furia rimuove pareti e colonne pericolanti. Ed entra fin nelle camere tagliate a metà, dove i letti e le lenzuola penzolano nel vuoto. C’era alloggiato anche un giornalista giapponese che è rimasto ferito. I camion portano via ciò che è stato strappato a una struttura inaugurata per gli Europei di calcio del 2012. E lo stadio olimpico è a mezzo chilometro. «Poi qualcuno ripete che ucraini e russi sono fratelli», urla una signora indicando la voragine. Si arriva uno dietro l’altro accanto all’hotel «ucciso», come lo definisce un agente di polizia.

Non un pellegrinaggio dell’orrore, ma un segno di vicinanza. «Anche il Palazzo delle arti è stato danneggiato dall’esplosione – fa sapere Pavel indicando l’edifico che sorge di lato –. E dire che ogni 31 dicembre è pieno di bambini per lo spettacolo natalizio dedicato a san Nicola. Grazie al cielo quest’anno è stato annullato per ragioni di sicurezza. Altrimenti poteva essere una strage». E dopo ogni incursione torna sempre lo stesso interrogato: perché proprio quel target? Si prova a dare una logica alla strategia della tensione di Mosca, anche per tentare di ipotizzare nuovi obiettivi. «Ma come fa Putin a giustificare il missile sull’albergo sostenendo che c’era una riunione della Nato e che lì il nostro Paese fabbrica droni?», prosegue Pavel.

Il desiderio di lasciarsi alle spalle le armi si tocca con mano in piazza Sofia dove è stato allestito l’albero di Natale, accanto al monumento a Bogdan “il Nero”, impacchettato per proteggerlo dai raid aerei. Complici le vacanze che vanno da Capodanno al Natale ucraino – celebrato il 7 gennaio secondo il calendario giuliano – e le temperature tutt’altro che rigide, si giunge in massa ai piedi del simbolo delle feste in città. Se metà è decorato con i colori giallo e blu dell’Ucraina, l’altra ha solo colombe bianche. Con le bandiere delle nazioni “amiche”. Yulia si mette in posa. Ha dieci anni. Si avvicina a una delle colombe e strilla al padre: «Scatta qui la foto». Poi sussurra: «Speriamo che davvero la guerra finisca».

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