martedì 1 novembre 2022
La macchina della solidarietà non si ferma e i volontari di Caritas-Spes lavorano senza sosta per preparare i pacchi viveri per le famiglie della capitale
La chiesa di Sant'Alessandro a Kiev

La chiesa di Sant'Alessandro a Kiev - Gambassi

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Dalle finestre si scorge il verde della collina di San Vladimiro, uno dei parchi più cari alla gente di Kiev. «È caduto lì uno degli ultimi missili russi arrivati in città. Meno di duecento metri da dove ci troviamo», racconta il vescovo Vitaliy Krivitskiy. Il suo studio è in un angolo della chiesa di Sant’Alessandro, quasi a ridosso del tetto, e lo si raggiunge con una ripida scala a chiocciola. «C’è bisogno di unire preghiera e azione», spiega l’energico salesiano 50enne originario di Odessa mentre indica i volontari di Caritas-Spes che nel cortile preparano i pacchi viveri per le famiglie della capitale. Dal 2017 guida la diocesi di Kiev-Zhytomyr, 8 milioni di abitanti dove i cattolici di rito latino sono poco più di 200mila.

«Adesso le bombe e i droni cadono sugli impianti elettrici e le reti del gas. Perché Putin vuole piegarci anche in questo modo: facendoci morire di freddo quando le temperature scenderanno oltre i venti gradi sotto lo zero». Non è un caso che il vescovo definisca l’inverno alle porte una «croce che siamo chiamati a portare» e chieda alle parrocchie di mettersi alla scuola del Cireneo che aveva aiutato il Signore lungo il Calvario. Come? Aprendo le porte di «chiese, canoniche e complessi pastorali ai fedeli che non avranno più l’energia elettrica e il riscaldamento in casa», fa sapere Krivitskiy. Lo ha scritto in una lettera inviata a tutti i sacerdoti dove sollecita ad affrettare l’organizzazione di una «calda accoglienza», dice sorridendo.

«Acquisteremo generatori di corrente a benzina per alimentare le stufe elettriche e funghi a gas con le bombole come si vedono fuori dei bar – annuncia –. Li sistemeremo ovunque sarà necessario per far restare al caldo quella parte della popolazione che vorrà passare con noi la giornata ma anche la notte. E, se servirà, metteremo a disposizione le chiese: per dormire e per avere un posto al riparo dal gelo». Quindi aggiunge: «La parrocchia non è del prete ma della comunità. E quando la comunità soffre, dobbiamo soccorrerla declinando nel quotidiano il Vangelo della carità».

Il vescovo ha già raccomandato ai parroci di comunicargli al più presto quante persone saranno in grado di ospitare. «Così, quando mancherà la corrente e nelle case diventerà impossibile avere un po’ di tepore o anche solo cucinare, la parrocchia contribuirà non solo ad alleviare i disagi ma anche a evitare nuovi dolorosi esodi dalle nostre terre. Consideriamola pure la nostra piccola risposta alla strategia di annientamento dell’Ucraina che sta portando avanti il Cremlino». Certo, aggiunge Krivitskiy, «siamo ben consapevoli che dovremo farci carico di quanto serve per riscaldare in maniera autonomia le nostre strutture. Ma ci sosterrà la Provvidenza, come ha sempre fatto in questi otto mesi di guerra».

Gli aiuti continuano ad arrivare, ma senza più quello slancio delle prime settimane del conflitto. «Si sono di gran lunga ridotti – osserva il vescovo – ma le necessità non sono sicuramente minori». Anzi, i poveri aumentano. «Ogni giorno che passa, sempre più persone perdono ciò che avevano messo insieme in anni di impegno e sacrifici: la casa, l’auto, soprattutto il lavoro. Tutto distrutto dagli attacchi russi. Ed era inevitabile che anche l’economia subisse un freno. Il rischio è davvero di non avere più nulla, neppure un’occupazione, e quindi di morire di fame».

Poi cita l’“Holodomor”, neologismo ucraino nato dalla fusione delle parole “fame” e “uccidere” per denunciare la carestia provocata nel Paese dall’Urss all’inizio degli anni Trenta. «Siamo nella stessa situazione. Oggi come allora Mosca ci vuole calpestare. Abbiamo resistito novant’anni fa. Ce la faremo anche adesso».

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