lunedì 31 gennaio 2022
Kiev ha disposto un cordone di 75mila uomini per controllare la frontiera bielorussa, trasformando l'area in una zona di guerra
Anche i piccolo si addestrano nel timore dell'invasione di Mosca

Anche i piccolo si addestrano nel timore dell'invasione di Mosca - Ansa

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La “guerra” tra Occidente e Russia sull'Ucraina ha traslocato all'Onu. Ieri c'è stato un duro scontro in Consiglio di sicurezza tra Washington e Mosca. L'intervento della rappresentante Usa, Linda Thomas-Greenfield, ha costretto l'ambasciatore russo, Vasily Nebenzia a negare ogni intenzione di invasione. La strategia della tensione di Vlademir Putin potrebbe ora ritorcersi contro di lui, obbligandolo a decidere se passare all'azione - poco conveniente per lo stesso Cremlino - o fare un passo indietro. Nel frattempo, la diplomazia cerca di trovare un "compremesso onorevole" per tutte le parti. Oggi, il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, avrà un colloquio telefonico con l'omologo Sergeij Lavrov.


Più in là di così non ci lasciano andare. E non solo perché siamo a una manciata di chilometri dal reattore numero 4, ma perché non molto lontana scorre la frontiera bielorussa. «I russi hanno fatto delle esercitazioni a otto chilometri da qui – ci concede un ufficiale ucraino –. Ma se decidono di invadere e di attraversare questa zona sono dei fessi: torneranno a casa fosforescenti e molti di loro moriranno di lì a due mesi». Il milite ha ragione. Perché un conto è la Disneyland dell’orrore che fino a pochi mesi fa richiamava centomila turisti all’anno che venivano impacchettati per bene con pesanti cortine antiradiazioni e condotti come un gregge sui sentieri contrassegnati dal simbolo giallo del pericolo atomico, un altro è il fatto che questa è diventata suo malgrado zona di guerra. Non bastasse la tragedia del 1986, ora questo spicchio di boschi e di neve si sta rivelando la direttrice nord-sud che le armate di Putin rischiano di percorrere per avvicinarsi a Kiev. Perché se non lo si fosse capito, qui siamo a un tiro di schioppo da Chernobyl e da Prypyat, la “città dei fiori”, che da quel giorno maledetto i fiori li ha dimenticati ed è diventata una spettrale distesa di palazzi abbandonati, di automobili arrugginite, con la tragica ruota panoramica che da dove siamo noi non si vede ma si avverte, come un’entità malevola. «Ma guardi che è meglio così», spiega Robi, un volontario della protezione civile che un paio di volte al mese partecipa alla riclassificazione dell’area ridisegnando ogni volta percorsi, sentieri sicuri, sentieri impraticabili.

I civili ucraini fanno allenamento alle armi nei boschi

I civili ucraini fanno allenamento alle armi nei boschi - Ansa


«Quella ruota – dice – è come la cattedrale delle nefandezze umane. Certo, il turismo è un affare, ma secondo me sciupa quel rispetto che è necessario di fronte a Chernobyl». Ha ragione. Avvolta da un silenzio che fa paura, più ancora delle radiazioni, la città dell’erba nera (così suona il suo nome) esala i suoi moniti. In poche ore quel 27 aprile di trentasei anni fa se ne andarono tutti, accompagnati dall’esortazione del partito: «Compagni, lasciando temporaneamente le vostre case, non dimenticate per favore di chiudere le finestre, di spegnere tutte le apparecchiature elettriche e a gas e di chiudere l’acqua. Si prega di mantenere la calma, l’ordine e la disciplina durante lo svolgimento di questa temporanea evacuazione». Ci vorranno tremila anni perché l’erba giallognola e bruciata dei prati sia di nuovo calpestabile. La zona di interdizione, 145 chilometri quadrati resterà tale per chissà quanti altri decenni.
Il governo di Kiev ha disposto un cordone di 75mila uomini attorno all’area di Chernobyl con il compito di sorvegliare la frontiera bielorussa. Pochi per contrastare un’eventuale avanzata russa, abbastanza perché l’intera regione sia diventata zona di guerra.
Il ricordo dei ritardi nelle decisioni e nei soccorsi e della violenta censura del Politburo si addensa ancora attorno alla figura di Mikhail Gorbacev. A lui – anche se all’epoca nessuno era davvero in grado di fronteggiare efficacemente un disastro come quello del reattore 4 – gli ucraini danno la colpa della tragedia. Un tempo quel triangolo che si veniva a formare dove Bielorussia Russia e Ucraina si congiungono poco più a nord di Chernobyl era noto come “le tre sorelle”. Un’unica anima per tre popoli consanguinei, secondo la propaganda sovietica. Oggi prevale invece un senso di profonda separazione, un solco che divide ucraini e russofoni e che comincia dal significato delle parole fino a invadere la loro pronuncia. «Si dice Kyiv, non Kiev. Kiev è in russo!», non si stanca di puntualizzare Katerina. Alla ragazza del Lviv Cafè (lo Starbuck’s locale) manda un rimbrotto severo: «Perché mi rispondi in russo? Ti ho chiesto un caffè, rispondimi nella mia lingua. Qui siamo in Ucraina…»

Soprattutto nelle città di confine la tensione è forte

Soprattutto nelle città di confine la tensione è forte - Ansa

È l’effetto-Chernobyl, un’intoccabile Pompei vaiolata dalla lebbra nucleare che è diventata una smagliante metafora identitaria svelando come gli ucraini si stiano rivelando più attaccati al sacro suolo della nazione di quanto non lo fossero mai stati prima. Aspettando un’invasione che forse non ci sarà mai.

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