sabato 13 febbraio 2021
A favore in 57 ma ne servivano 67. Solo 7 repubblicani si sono schierati contro l'ex leader accusato di avere spinto i suoi seguaci ad assalire il Campidoglio lo scorso 6 gennaio
Il voto al Senato. La maggioranza è contro Trump ma servivano più voti

Il voto al Senato. La maggioranza è contro Trump ma servivano più voti - Ansa / Epa

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«Not guilty», non colpevole. Il Senato Usa ha assolto, per la seconda volta, l’ex presidente Donald Trump, bocciando l’impeachment. Con una maggioranza di 57 voti a favore della condanna e 43 contro, non raggiungendo però la maggioranza dei due terzi necessaria. Con sette repubblicani comunque a favore della colpevolezza, uno in più rispetto a quanti si erano pronunciati per l’avvio della messa in stato d’accusa. «Una caccia alla streghe» l’ha definita l’ex presidente subito dopo la vittoria, ritornando sul mantra del «nostro movimento politico che è solo all’inizio».

In realtà, l’esito era ampiamente previsto dall’inizio delle udienze e dopo la dichiarazione, ieri, del leader del Gop, (Grand old party), Mitch McConnell, che aveva esplicitamente annunciato il no all’accusa di «istigazione all’insurrezione» nei confronti del tycoon. Più del risultato, a tenere, invece, con il fiato sospeso rappresentanti e opinione pubblica per gran parte della giornata di ieri è stata l’incognita sull’effettivo svolgimento del voto. Colpa della «sorpresa del sabato», come l’hanno chiamata i media.

Ovvero della richiesta, da parte dell’accusa, di sentire la testimonianza della deputata repubblicana Jamie Herrera Beutler, dopo che alcune sue rivelazioni erano iniziate a circolare. In particolare, Beutler aveva raccontato di un’accesa conversazione tra il capogruppo della minoranza del Gop, Kevin McCarthy, e Trump durante l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio scorso. Secondo la rappresentante, l’ex capo della Casa Bianca sarebbe stato informato della sommossa al Congresso e del pericolo per l’ex vicepresidente Mike Pence, ma non avrebbe chiesto l’intervento della guardia nazionale. Anzi avrebbe spiegato a McCarthy che i dimostranti erano «preoccupati solo dell’esito delle elezioni».

E a quel punto è scoppiato il caos che poteva portare al rinvio di giorni della sentenza. In risposta alla richiesta a sorpresa dell’accusa, il capo della difesa Michael van der Veen ha infatti subito risposto piccato di «essere pronto a contrapporre trecento testimoni». Scatenando, così, per più di due ore il rincorrersi di voci e scenari possibili. I tempi del procedimento sembravano inesorabilmente destinati ad allungarsi con le deposizioni che andavano approvate singolarmente. Ben 55 senatori (cinquanta dem e cinque del Gop) – compreso il forte alleato di Trump, Lindsey Graham – si erano prontamente pronunciati a favore della possibile convocazione di testimoni, lasciando «sbalordito» lo stesso Trump.

A quel punto, però, ha trionfato la realpolitik. È cominciata la trattativa dietro le quinte, con i dem divisi tra la possibilità di raccogliere eventuali prove e la fretta di chiudere tutto. Ipotesi quest’ultima gradita (paradossalmente) anche a molti leader dell’Asinello, preoccupati forse più del prossimo voto sugli stimoli all’economia (cavallo di battaglia di Joe Biden) che delle sorti del tycoon. Oltretutto, come sottolineato da vari senatori repubblicani, la manovra avrebbe «acuito ulteriormente le tensioni». Fra i democratici, dunque, è iniziato a diffondersi il timore di aver aperto un vaso di Pandora.

Alla fine, dopo una pausa dell’udienza, il fronte dell’impeachment ha fatto marcia indietro: i senatori hanno deciso di accantonare l’idea e di includere, invece, a verbale la dichiarazione di Jamie Buetler. E il voto è arrivato nel pomeriggio americano: erano quasi le 22 in Italia. Con il verdetto previsto da tutti fin dall’inizio: not guilty, non colpevole.




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