giovedì 7 dicembre 2017
Violenze e feriti dopo la decisione del presidente Usa di trasferire l'ambasciata da Tel Aviv. Il leader di Hamas: «Venerdì 8 dicembre sarà l'inizio di una nuova Intifada contro Israele»
Palestinesi manifestano a Nablus in Cisgiordania contro la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele (Ansa)

Palestinesi manifestano a Nablus in Cisgiordania contro la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele (Ansa)

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Scontri e feriti a Gaza e in Cisgiordania dove i palestinesi partecipano a manifestazioni di protesta contro la decisione del presidente americano Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e di trasferirvi l'ambasciata. A Tulkarem sono state bruciate bandiere degli Stati Uniti e fotografie di Trump. L'esercito israeliano ha disperso gruppi di dimostranti vicino alla Città vecchia di Gerusalemme e a Hebron. Poche ore prima il capo dell'ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, aveva chiamato alla terza Intifada: «Domani venerdì 8 dicembre sarà il giorno dell'ira e l'inizio di una nuova intifada chiamata "la liberazione di Gerusalemme"».

Per la prima volta in 70 anni, gli Stati Uniti hanno ufficialmente riconosciuto Gerusalemme, la Città santa contesa fra Palestina e Stato ebraico, come capitale d’Israele – una mossa che ha provocato ira nel mondo arabo e forti critiche da parte degli alleati europei degli Usa.

«Non possiamo risolvere i nostri problemi seguendo le stesse strategie sbagliate del passato, tutte le sfide richiedono nuovi approcci», ha detto il presidente Usa, ricordando che già nel 1995 il Congresso americano con una legge – il «Jerusalem Embassy Act» – aveva stabilito il trasferimento dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a «Gerusalemme capitale», ma che da allora «qualsiasi presidente ha rinunciato a farlo». In realtà ieri anche Trump ha firmato, come i suoi predecessori, un’ulteriore dilazione di sei mesi all’applicazione della misura del 1995, ma solo per motivi pratici. L’effettivo spostamento della sede diplomatica, che comincerà «immediatamente», ha assicurato il capo della Casa Bianca, richiederà mesi: nel frattempo resterà operativa quella di Tel Aviv.

Il tycoon ha motivato la decisione come presa d’atto di una realtà di fatto (tutte le istituzioni israeliane hanno sede a Gerusalemme) e come una svolta necessaria per la pace in Medio Oriente: «Con oltre 20 anni di queste rinunce non ci siamo avvicinati ad un accordo di pace durevole tra Israele e palestinesi», ha detto, sottolineando che l’annuncio riflette una sua promessa elettorale che risponde al «migliore interesse degli Stati Uniti, di Israele e dei palestinesi».

Molti non sono d’accordo. Se il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha esaltato il momento come «storico» (garantendo tuttavia il mantenimento dello status quo per i luoghi religiosi nella città santa, per ebrei, cristiani e musulmani), i leader palestinesi hanno reagito con sgomento. «Gli Stati Uniti non potranno più fare da mediatori in un negoziato tra israeliani e palestinesi», ha asserito il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen.

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Anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha condannato la decisione come una «misura unilaterale che mette a repentaglio la prospettiva della pace», dicendosi preoccupato e precisando che «non c’è un’alternativa alla soluzione a due Stati. Non c’è un piano B». Inquietudine espressa dall’Italia anche dal ministro degli Esteri, Angelino Alfano, che ha ribadito la posizione nazionale «contraria » alla decisione americana su Gerusalemme, il cui status «va stabilito nel negoziato di pace». L’inclusione di Gerusalemme nei propri confini è infatti tuttora contesa fra israeliani e palestinesi, che la rivendicano entrambi come capitale. Al momento, la maggior parte degli Stati membri dell’Onu non riconosce a Israele il controllo legale di Gerusalemme Est, che lo Stato ebraico ha occupato dopo la guerra dei sei giorni del 1967, né accetta la legge del 1980 con la quale Israele dichiarò la Città Santa sua «unica e indivisa» capitale. Dal rispetto di questa situazione nasce infatti la deroga che il Congresso Usa ha inserito nella legge del 1995 (legge che l’allora presidente Bill Clinton si rifiutò di firmare in segno di protesta). La disposizione permette al presidente di posticipare il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme per sei mesi se «necessario per proteggere gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti». Clinton, George W. Bush e Barack Obama lo hanno fatto, regolarmente, due volte all’anno.

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Ieri Trump ha però tenuto a precisare che il suo impegno a favore di una riconciliazione in Medio oriente resta forte, tanto da includere «una soluzione a due Stati, se accettata da entrambe le parti». Il miliardario repubblicano finora non aveva preso una posizione chiara sulla creazione di uno Stato palestinese. Trump ha poi chiesto alle parti «calma, moderazione e tolleranza che prevalga su chi semina odio». «Ribadisco l’impegno della mia Amministrazione – ha concluso il Commander- in-chief Usa – per un futuro di pace e sicurezza per la regione». Per questo, invierà il suo vice, Mike Pence, nei prossimi giorni in Medio Oriente.

Di certo ieri era chiaro che l’artefice della svolta americana era il genero e consigliere di Trump, Jared Kushner, che per mesi ha lavorato dietro le quinte insieme a Jason Greenblatt, suo storico avvocato, approfondendo i rapporti con l’Arabia Saudita in modo da smussare le previste reazioni del mondo arabo. Il tempismo dell’annuncio ha anche spinto alcuni osservatori a sospettare un tentativo di sviare l’attenzione generale dai problemi legali che hanno toccato già quattro collaboratori di Trump. Ma è una scommessa che molti considerano azzardata per gli interessi americani, a partire dal segretario di Stato Rex Tillerson, sempre più estromesso dai dossier scottati della politica estera americana.

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