venerdì 6 maggio 2016
​Il «clan dei Bush» lo scarica, gli analisti ammettono di aver sottovalutato.
Usa, Trump fa i conti con il fattore razziale
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Nel 2012, il partito repubblicano Usa pubblicò un piano su come riconquistare la Casa Bianca nel 2016. La chiave di volta era espandere la scarsa presa del Grand old party (Gop) fra le minoranze etniche. Un anno fa, la compagine conservatrice ripose tutte le sue speranze di tornare alla presidenza in Jeb Bush (il quale ieri, insieme al padre e al fratello George W., ha detto che non sosterrà mai Donald Trump), che proponeva una riforma dell’immigrazione e un ritorno al «conservatorismo compassionevole». Le cose, poi, sono andate diversamente. Oggi il leader di fatto del partito di Lincoln è un candidato che ha incoraggiato a picchiare i membri del movimento “Le vite nere contano”, definendoli «agitatori esterni », termine usato 50 anni fa nel Sud per gli attivisti per i diritti civili. «Amo i vecchi tempi – ha ammiccato più di una volta – quando manifestanti del genere finivano su una barella». Il magnate ha respinto l’etichetta di razzista, sostenendo di dire «le cose come stanno» e di non essere «politicamente corretto». Ma in molti oggi sospettano che il razzismo, più o meno esplicito, del miliardario, stia legittimando sentimenti di supremazia bianca più radicati di quanto si sospettasse. La correttezza politica forse ha messo un coperchio sulle divisioni razziali. Trump l’ha tolto. «C’è più entusiasmo per Trump tra i leader del Ku Klux Klan che tra i leader del partito che controlla», ha scritto su Twitter ElizabethWarren, popolare senatrice liberal. Hillary Clinton ha rilanciato il messaggio, sottoscrivendolo. È una realtà difficile da digerire, come dimostrano i commentatori che ogni giorno ammettono di aver sottovalutato le simpatie che il razzismo di Trump avrebbe riscosso fra gli elettori. Per questo, la gara che si è aperta questa settimana fra l’ex first lady democratica e il camaleontico uomo d’affari si prospetta una delle più divisive della storia Usa, che acuirà le tensioni fra persone di colore e bianche.Trump (che ieri ha incassato la diffida dei Rolling Stones dall’usare la loro musica ai comizi) non ha mai nascosto le sue antipatie per chi ha la pelle scura. Suo padre, Fred, fu arrestato nel 1927 a una manifestazione del Ku Klux Klan. Nel 1970, Fred e figlio furono citati in giudizio dal dipartimento alla Giustizia per aver rifiutato sistematicamente di affittare i loro appartamenti a inquilini neri.Per certi aspetti Trump non fa che echeggiare toni usati dallo stesso Gop negli anni Ottanta al Sud per lasciare il (limitato) voto nero ai democratici e consolidare la presa di quello bianco difendendone implicitamente la superiorità. Se il partito dell’elefantino da allora ha voltato le spalle alla «strategia del Sud», il fenomeno Trump ha rivelato in quanti la rimpiangano. La versione di Trump però è più ampia: comprende anche ispanici, arabi e musulmani, nativi americani e cinesi. Trump ha cominciato a far parlare di sé la scorsa estate sostenendo che il Messico manda negli Usa «criminali e stupratori». Poco più tardi, due suoi sostenitori a Boston hanno picchiato un uomo senza fissa dimora dai lineamenti ispanici. Il candidato ha risposto che i suoi elettori a volte sono «appassionati ». Il miliardario ha anche proposto di vietare l’ingresso negli Usa a tutti musulmani. La scorsa settimana, un fan di Trump ha aggredito una donna musulmana in un caffè di Washington urlando che Trump, «vi rimanderà da dove siete venuti». In precedenza, il miliardario aveva attaccato i nativi americani, i cui casinò competono con i suoi, accusandoli di «traffico di droga e clandestini, riciclaggio di denaro e violenza». Le primarie hanno dimostrato che questi appelli fanno leva sull’insicurezza e la paura delle famiglie bianche che hanno perduto le sicurezze legate all’appartenenza alla classe media e cercano un capro espiatorio. «Un’enorme maggioranza dei crimini violenti nelle nostre città è commessa da neri e ispanici», dice loro Trump. Nel 2008, Barack Obama vinse grazie a una piattaforma di inclusione che fece sperare in un radicale miglioramento nelle relazioni razziali negli Usa. Otto anni dopo, milioni di americani sembrano respingere quel sogno.
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