domenica 28 febbraio 2016
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Dritto come un fuso davanti al giudice capo John Roberts, alza la mano destra e pone la sinistra sulla Bibbia. «Io, Donald Trump, giuro solennemente…». Giuramento, bacio alla moglie Melania, abbraccio ai figli. Un frastornato Barack Obama gli stringe la mano. Donald J. Trump, 45esimo presidente degli Stati Uniti, sposta il leggìo e inizia il suo discorso, forse il primo di un capo della Casa Bianca recitato a braccio. Ecco, potrebbe essere questo il punto in cui il capo della maggioranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell, si sveglia dal suo incubo notturno, la fronte imperlata di sudore freddo. Perché questa scena non può realizzarsi, Donald Trump non può davvero vincere la presidenza. Ebbene, chi la pensa così forse sta realmente ancora dormendo.Negli ultimi otto mesi, da quando cioè il re newyorkese del mattone ha lanciato la sua candidatura alla nomination repubblicana, l’élite politica di Washington ha fatto di tutto per sottostimarlo. Non ha compreso il sostegno che Trump è in grado di ottenere, né la sua scaltrezza  nell’uso dei media. Così, ora che è sul punto di sbancare anche il Supermartedì – dopo 3 vittorie nei primi 4 Stati in cui si è andati al voto in queste primarie – «l’impossibile» si è lentamente trasformato in «improbabile», prima di stagliarsi all’orizzonte come «l’inevitabile». Trump è più che favorito per la nomination e, se gli toccherà sfidare Hillary Clinton per le presidenziali, potrebbe pure batterla e finire alla Casa Bianca. Linguaggio ruvido, proposte spesso strampalate e fuori dagli schemi. Trump non si è fatto mancare niente. Ha insultato messicani e musulmani, ha definito «idioti» i membri dell’establishment, non ha risparmiato critiche agli stessi vertici repubblicani. Quei vertici che tutti vorrebbero per rappresentare il partito tranne lui. Eppure il miliardario non fa che crescere. Più spettacolo che sostanza, si è detto, ma la sua narrativa non si è liquefatta dopo l’iniziale tonfo in Iowa: Trump è anzi riuscito ad allargare la sua base elettorale. Il lavoro e l’economia sono al primo posto tra le preoccupazioni degli americani. Non è una sorpresa, ma meraviglia quanto temi come l’immigrazione e gli accordi di libero scambio siano diventati cruciali per una classe lavoratrice che su questi aspetti si sente tradita dal governo. Sono elettori che si sentono presi in mezzo tra le politiche di libero commercio che hanno spostato posti di lavoro all’estero e il fallimento delle attuali leggi sull’immigrazione che consentono agli irregolari di competere con loro per i lavori rimasti.Negli ultimi 30 anni il numero dei lavoratori nelle imprese manifatturiere Usa è calato di 5 milioni. «Quando Trump parla di “punire la Cina”, o di costruire un muro al confine con il Messico per fermare l’immigrazione è a questi elettori che si rivolge – spiega l’analista Andrew Puzder –. Persone che hanno perso così tanta fiducia nell’establishment che sono apparentemente disposte a ignorare ogni sorta di differenza ideologica o politica che potrebbero avere con Trump». Trump, un “eroe” teatrale fino al midollo. Che colpisce chi non cerca risposte razionali, ma è disposto a farsi persuadere da una narrazione convincente, seppur inverosimile. «Sono l’unico che ha creato lavoro su questo palcoscenico », ha tuonato durante l’ultimo dibattito tv con i rivali, glissando però sui suoi numerosi fallimenti da imprenditore.A livello strategico la campagna di Trump sembra improvvisata, priva di una visione complessiva. Ma non è così. Il miliardario ha anzi specificamente messo nel mirino la fascia elettorale della classe lavoratrice bianca e tendenzialmente poco istruita («Amo le persone poco istruite», ha ribadito dopo la vittoria in Nevada). I suoi raduni politici – meglio, i suoi show dove è atteso al pari di una rockstar – si tengono quasi sempre in città depresse nelle quali il tasso di disoccupazione è al di sopra della media nazionale. Eccolo, dunque, a Mobile, in Alabama, o a Beaumont, in Texas. E domani il suo aereo atterrerà in Georgia ma non nella capitale Atlanta, bensì a Valdosta, una cittadina in cui il reddito medio è inferiore ai 30mila dollari. Meraviglioso paradosso questo di un miliardario che è riuscito a imporsi in queste primarie come il paladino degli emarginati. Ma non solo: “evangelico” con gli evangelici, arrabbiato con gli arrabbiati del ceto medio, bombarolo con i bombaroli che non apprezzano complicate analisi sul terrorismo islamico. Il camaleonte Trump ha soluzioni semplicistiche “giuste” per tutti. Il partito non lo apprezza, eppure è soprattutto grazie al ciclone Trump se l’affluenza di queste primarie è salita del 28 per cento rispetto al 2012. Il magnate sfonda non solo nelle classi lavoratrici bianche. Nonostante i commenti contro i messicani e gli irregolari, si è aggiudicato anche il piccolo campione di latinos repubblicani del Nevada, ha limitato Ted Cruz tra gli evangelici nello stesso Nevada e in South Carolina ed è in testa nei sondaggi tra i pensionati della Florida. «Il suo etno-nazionalismo populista sta eccitando molti repubblicani, inclusi quelli che in alcuni casi hanno votato per i democratici o che non si erano recati ai seggi», sottolinea il sito The Politico. C’è chi pensa che solo un eventuale ritiro degli altri sfidanti che facesse convergere i consensi su un unico candidato moderato – Rubio il favorito del partito – potrebbe ancora offrire una chance al partito repubblicano per evitare l’inevitabile Trump. Molto dirà il voto di martedì, ma allo stato attuale solo una débacle significativa convincerebbe gli sfidanti al ritiro. Nel frattempo, più il campo resterà diviso, più Trump continuerà a giovarsene. Marchiando con la sua retorica pop il resto della lunga corsa elettorale.
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