domenica 21 dicembre 2008
La Northwest Harvest da più di 40 anni gestisce oltre 300 mense nello Stato di Washington, uno dei più colpiti dalla crisi finanziaria ed economica: qui in novembre si sono registrate una media di 100 bancarotte al giorno. Nei centri di aiuto il 40% degli assistiti sono bambini, il 19% ha invece superato i 65 anni. Ma sono sempre di più le famiglie che faticano a far quadrare i bilanci In un vecchio magazzino nel cuore della città la gente attende di ritirare ogni sorta di cibo. E non sono solo senzatetto o disoccupati a chiedere. Molti però sono «working poor», hanno un lavoro e un mutuo da pagare.
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La Seattle che non ti immagini – lontana idealmente anni luce dai campus ultra tecnologici della Microsoft e dagli aerei scintillanti della Boeing – è in realtà all’ombra dello Space Needle a pochi passi dal centro città. Un ex magazzino abbattuto con le pareti scrostate e le tubature in evidenza, ospita il banco alimentare del Northwest Harvest, un’associazione che da più di 40 anni serve i poveri della città e distribuisce cibo alle oltre 300 mense di tutto lo Stato di Washington. Non bastano i rami d’agrifoglio appesi alle vetrine dei negozi per fare Natale. Alle 10 di mattina la fila di gente fa già il giro dell’isolato. «Molti sono in coda dalle 6,30 – spiega il direttore della comunicazione Claire Acey – il banco apre solo alle 9, ma vogliono assicurarsi di poter prendere il cibo che preferiscono». Quando arriva il loro turno, segnano su un foglio nome e numero di componenti della famiglia; «anche un’iniziale – spiega Claire – ci serve solo a capire quante persone serviamo». Prendono una busta e, come al supermercato, vagano tra i banchi a caccia di generi alimentari. «Tentiamo di mantenere un ordine, ma non controlliamo il cibo che prendono – continua Claire –. La libertà di scelta è importante, è un modo per rispettare la loro dignità». Tra le voci allegre di oltre 20 volontari di tutte le età, sfilano barbe lunghe e vestiti sdruciti, ma anche molti cappottini dignitosi, anziani col carrello della spesa, bambini aggrappati alle mamme, ragazzi sui 20 anni. «Ci sono circa 500mila persone che ogni mese visitano ai nostri banchi alimentari – spiega Claire –. Il 40% sono bambini, il 19% ha più di 65 anni. E negli ultimi mesi stiamo registrando un’affluenza record con oltre il 17% di ospiti in più. Molti i disoccupati e i senzatetto, – alcuni ospiti dalla locale tendopoli “rosa” sorta a settembre a Seattle –, ma per la maggior parte si tratta di “working poor”, una nuova categoria di persone che hanno n un lavoro e una casa, ma che si rivolgono a noi per risparmiare sul cibo visto che non esiste un banco che aiuti a pagare il mutuo o le bollette della luce. Queste sono le persone più difficili da gestire, sono ansiose, a disagio, probabilmente stanno attraversando il periodo più difficile della loro vita e spesso diventano violente». Lo Stato di Washington d’altronde, è stato duramente colpito dalla crisi finanziaria, con il fallimento della sua banca più importante, la Washington Mutual poi assorbita dalla JP Morgan Chase; la scorsa settimana il gruppo ha annunciato il licenziamento di 3.400 persone, l’80% degli impiegati assunti su Seattle. L'emergenza: in pochi mesi 10,3 milioni nella miseriaCon il mese di novembre lo Stato del Nord ovest ha inoltre raggiunto il triste record di 100 bancarotte al giorno. Per sfamare i suoi ospiti la Northwest Harvest fa totalmente affidamento sulla generosità dei privati, per il 60% singoli cittadini e per il resto aziende e fondazioni. «Per scelta, non riceviamo fondi statali né governativi – spiega Claire – perché crediamo nel valore di una comunità che si prende cura dei suoi poveri. Fino ad ora le donazioni sono state più che sufficienti a sostenere i costi e anche per Natale siamo al 20% tra cibo e denaro in più. Ma non posso negare che siamo preoccupati. Stiamo registrando un’affluenza straordinaria mai vista in 40 anni di attività e dopo Natale, si sa, le donazioni calano a picco. Tenteremo di farci bastare le provviste raccolte in questo periodo ma se la crisi, come dicono, durerà e anzi si aggraverà, c’è il rischio di non avere cibo sufficiente a sfamare tutti». Sono le 18, il banco chiude tra pochi minuti ma in fila ci sono ancora una ventina di persone.C’è una faccia triste dell’America che non compare in tv e non occupa le colonne dei giornali, che si nasconde tra le pieghe della crisi finanziaria e si mimetizza tra le tante emergenze. È la faccia di un Paese che rischia di scivolare rapidamente nella povertà. L’allarme è stato lanciato nei giorni scorsi da un’analisi realizzata dal Center on Budget and Policy Priorities per il Department of Health and Human Services: se le previsioni sulla recessione economica formulate in questi giorni risulteranno vere, nel giro di pochi mesi negli Usa ci saranno oltre 10,3 milioni di nuovi poveri, 3,3 milioni dei quali, bambini. Questo significa che il numero degli americani che vivono sotto la soglia di indigenza (fissata in 21,200 dollari annuali per una famiglia di 4 persone) da qui ad un anno potrebbe toccare la cifra record di 47 milioni di persone. Se il futuro è in odore di catastrofe, il presente offre già un assaggio. Nel mese di novembre, l’indice di disoccupazione negli Usa ha toccato il record degli ultimi 14 anni con una percentuale del 6,7% e 10,3 milioni di disoccupati. In un processo a catena inevitabile (chi non ha un lavoro non ha risorse per pagare un mutuo) la disoccupazione è all’origine anche del record di pignoramenti registrati nel corso del 2008 e che si aggira su una media di 300mila case al mese; inoltre, poiché l’assicurazione sanitaria è legata nella maggior parte dei casi al posto di lavoro, i nuovi poveri rischiano di allungare la lista degli americani senza assistenza medica, che già a fine 2007, prima della crisi di questo autunno, contava 45,7 milioni di persone. Ma povertà significa soprattutto fame. Dall’agosto 2007 allo stesso mese del 2008, il Food stamps – il programma federale di aiuto alle famiglie che distribuisce un credito spendibile unicamente per l’acquisto di beni di prima necessità – ha registrato un’impennata del 10% nel numero di iscritti, con oltre 2,6 milioni di nuove persone che fa lievitare il numero di assistiti a 29 milioni.Sebbene gravi i numeri di questa recessione sembrano in linea con i periodi di recessione già vissuti dagli Usa, considerato che ad esempio, negli anni ’80 il numero dei poveri era cresciuto di quasi 9 milioni. La grossa differenza è che 30 anni di affermazione del capitalismo hanno portato ad una drastica riduzione dei sussidi statali e federali ed oggi le tutele per i più poveri si sono drammaticamente assottigliate. A livello federale, ad esempio, solo il 40% delle famiglie qualificate per il programma Temporary Assistance for Needy Families può effettivamente accedervi; negli anni 80 sarebbero stati almeno il doppio. Quando gli aiuti pubblici non bastano a molti americani non rimane che ricorrere alle non profit. Ma anche lì, il rischio collasso è in agguato. «Siamo in stato di allerta – dice senza troppi giri di parole Vicki Escarra di Feeding America, la più grande società non profit Usa che combatte la fame – negli ultimi mesi nei nostri food bank la domanda è cresciuta del 35-40% e le donazioni solo del 18%. Non so quanto potremo andare avanti». «Il non profit – spiega ad Avvenire Robert Egger, fondatore e direttore del food bank Central Kitchen di Washington – ha sempre fatto affidamento sugli extra, fossero essi i soldi in più a disposizione di aziende e fondazioni o il cibo in avanzo ad alberghi e ospedali. La crisi ha posto fine al superfluo, anche per queste grandi realtà, e i nostri servizi ne risentono inevitabilmente. La situazione è molto grave, non ho mai visto nulla di simile in 30 anni di attività e non vedo soluzioni a breve termine. E quel che è più grave è che anche gli Stati vivono un grosso periodo di ristrettezze economiche, – 43 su 50 registrano bilanci in perdita – e piuttosto che alzare le tasse taglieranno ulteriori servizi. Le non profit che in passato potevano intervenire ad arginare la situazione, ora potranno aiutare poco. C’è da aspettarsi che a pagare la crisi saranno, come sempre, i più deboli».
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