domenica 21 febbraio 2016
Tra i profughi siriani schiavi nei frutteti turchi
COMMENTA E CONDIVIDI
La piana che si estende lungo la baia da Mersin a Iskenderun è la Conca d’Oro della Turchia meridionale. Osservarne i colori dalla alture fa comprendere perché la gente del posto ne parli come di un “giardino”. Un paradiso che ha i suoi dannati: i profughi cristiani siriani. Tra melograni, aranceti, ulivi secolari e ogni genere di ortaggi e frutti, da prima dell’alba a dopo il tramonto sono loro ad affondare le caviglie lungo i filari. Uomini e donne, braccianti per necessità. Mettersi furtivamente in tasca una sola arancia può costare la già difficile sopravvivenza dell’intera famiglia. Nessun contratto, niente sindacati. Tutti sanno, nessuno vede. Una sola regola: non lamentarsi. Mai. In caso contrario, addio alle 20 lire turche (6 euro) per una giornata da schiavi, arrampicati agli arbusti, poi trascinando per decine di metri fino al bancale più vicino non meno di trenta casse al giorno, ciascuna con 50 chili di frutti appena colti. Chi a fine giornata resta al di sotto della tonnellata, domani starà a casa. Tanto c’è sempre qualcuno pronto a lavorare di più chiedendo meno. I raccoglitori turchi, già sottopagati, ottengono 60 lire al giorno, il triplo. Ma è un lavoro che i giovani non vogliono più fare, perciò la guerra nella vicina Siria è stata una benedizione per gli aguzzini che nei campi ti insultano in una lingua che non capisci, mentre magari incespichi o svieni per la fatica. «Ma abbiamo bocche da sfamare: chi cinque, chi otto, chi dieci. E anche di più se ci metti i vecchi che sono scappati con noi da Aleppo», racconta Antoine, quarant’anni, un passato da impiegato di banca «e ora senza futuro», dice lui. Non fosse stato per la moglie e i figli, «mi sarei ammazzato o mi sarei arruolato». Con chi? «Non lo so. Assad ha protetto i cristiani, ma è un dittatore. Daesh non ne parliamo, anche i ribelli di al-Nusra impongono la conversione all’islam, forse sarei andato con i curdi», afferma più per rabbia che per convinzione. I profughi islamici, al contrario, ottengono accoglienza e assistenza prima e meglio della minoranza cristiana. Non che vi sia una palese discriminazione da parte delle autorità di Ankara, «ma che non siamo i benvenuti si capisce entrando nei campi allestiti dal governo. I musulmani con cui fino a ieri eravamo buoni vicini di casa, adesso fanno gruppo tra loro e anche le scuole nei centri profughi sono gestite come scuole islamiche. L’Europa, prima di regalare altri soldi a Erdogan, dovrebbe controllare come vengono spesi e quale futuro si sta costruendo».  Erano commercianti, medici, informatici, artigiani. Insomma, quasi nessuno tra loro faceva il contadino. «Ogni settimana venivamo ad Antakya per fare la spesa. Quando la Siria era la Siria e i turchi ci sorridevano perché noi eravamo i ricchi che venivano a spendere nei loro mercati», ricorda Maria che con un nome così ha potuto solo fuggire dalla sua casa di Idlib, con il marito e le due bambine ancora in età da scuola materna. È successo un anno fa, quando le frontiere erano ancora aperte. Dall’inizio della guerra i turchi hanno perso la loro migliore clientela. Il conflitto ha colpito duramente anche loro. A quelli come Antoine e il marito di Maria non resta che andarsene e discendere a valle verso Iskenderun e Mersin. Lì hanno bisogno di schiavi. Per i profughi cristiani c’è un tariffario a parte: 5 euro al giorno nell’edilizia, tre nelle campagne, due per fare pulizie e altri lavori umilissimi. Non bastano per vivere e neanche per sperare. «Ma preghiamo ancora, non possiamo fare altro», dice Maria guardando le bambine. A camminarci dentro, nella campagna che guarda al mare, tra gelsomini, limoneti, cespugli che esalano profumi di timo e origano, si direbbe che è il posto perfetto per ricominciare. Maria ha ragione: «Non è il paradiso, ma è in Siria che abbiamo visto l’inferno. Nonostante tutto molte famiglie turche islamiche ci aiutano ad arrivare a fine mese. E alle mie bambine dico che il male e il bene non sono per sempre e non sono tutti da una sola parte».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: