lunedì 3 gennaio 2022
L'economista ha detto di non essere riuscito a ridare il potere ai civili dopo il colpo di stato compiuto dall'esercito: ora il paese è tornato sotto il controllo dei militari
Abdalla Hamdok

Abdalla Hamdok - Ansa

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Non si intravedono facili sbocchi nell’avvitamento di una crisi, quella sudanese, che nelle ultime 48 ore ha fatto registrare nuovi scossoni e che da nazionale fa sentire le sue ripercussioni ormai anche a livello regionale. A due giorni dalle dimissioni dal primo ministro di transizione Abdalla Hamdok – e dal suo discorso in diretta tv in cui ha sottolineato che a rischio è la «sopravvivenza » stessa del Sudan – il Paese è al centro delle preoccupazioni dell’Unione Africana, che ha sospeso Khartum dopo il golpe militare del 25 ottobre, e degli Stati vicini, dall’Etiopia all’Egitto alla Somalia. Se gli Stati Uniti e l’Unione Africana premono per un percorso che porti rapidamente ad un effettivo potere nelle mani dei civili, i Paesi vicini stanno soprattutto cercando di capire come posizionarsi, in vista della risoluzione di dispute come quella della diga sul Nilo.

Nella capitale sudanese oggi sono previste nuove manifestazioni contro i militari da parte dei movimenti di disobbedienza civile, che domenica hanno contato altre tre vittime nella repressione dei cor- tei. Il bilancio totale dal giorno del golpe è così salito a 57 morti. Il premier Hamdok, destituito dai militari a ottobre e poi da loro rimesso in sella un mese dopo, ha preferito lasciare l’incarico, non essendo riuscito a coagulare il consenso necessario intorno al nuovo esecutivo di transizione. Al momento, insomma, sembra fallita la scommessa (o l’azzardo) di una collaborazione tra governo civile e militari che desse stabilità a un Paese oppresso da trent’anni di dittatura dell’ex uomo forte Omar Hassan el-Bashir e che oggi fa i conti anche con una clamorosa crisi economica. «Ho fatto del mio meglio per evitare che la nazione scivolasse verso la catastrofe – ha dichiarato domenica Hamdok in tv – alla luce della frammentazione delle forze politiche e dei conflitti tra le componenti del consiglio di transizione». A ottobre Hamdok – un passato da economista con esperienza nelle Nazioni Unite – era stato fatto arrestare dal generale Abdel Fattah al-Buhran, a capo del Consiglio sovrano di transizione e con solidi legami con il presidente egiziano al-Sisi. A novembre, il nuovo incarico che era stato conferito ad Hamdok non aveva però fermato le manifestazioni dei movimenti della società civile, che hanno avuto un ruolo preponderante, nel 2019, nella cacciata di Bashir. Hamdok, secondo molti analisti, era ormai visto soltanto come la facciata rispettabile del golpe militare. In un Paese grande più di sei volte l’Italia, dove mancano le infrastrutture essenziali, la recente politica di austerità non ha fatto che aumentare il malcontento di una popolazione impoverita da un tasso di inflazione oltre il 300%.

Ansa



Grazie alle promesse fatte ai donatori internazionali, il governo Hamdok si era assicurato un accordo per la riduzione di oltre 56 miliardi di dollari di debito estero, accordo a rischio dopo il golpe, così come restano congelati sia il prestito da 2,5 miliardi di dollari del Fmi stabilito lo scorso giugno che 700 milioni di aiuti Usa. A livello interno, le autorità di transizione avevano raggiunto una parziale intesa di pace con milizie ribelli nel sud del Sudan e nel Darfur, dove sono in aumento i disordini e gli sfollamenti. L’esecutivo aveva inoltre deciso di adottare misure per seguire altri Stati arabi nella normalizzazione dei legami con Israele. L’evoluzione della crisi sudanese non potrà non avere impatto su una regione instabile al confine con il Sahel, il Mar Rosso e il Corno d’Africa, dove le potenze internazionali si contendono sfere di influenza. Il conflitto nella regione etiope del Tigray ha avuto come conseguenza l’arrivo di decine di migliaia di rifugiati in Sudan e ha rinnovato le tensioni sui terreni fertili della zona di al-Fashaga, a ridosso del confine conteso tra

Sudan ed Etiopia. Dagli Usa, intanto, è forte il pressing perché il governo sudanese «resti a guida civile», mentre l’Onu auspica «un dialogo significativo e inclusivo». «Libertà, pace, giustizia e un Paese che accolga tutti e che guardi al cambiamento e alla costruzione di un nuovo Sudan in cui tutti siano uguali, come un popolo e una nazione », ha scritto nel suo messaggio di Natale il vescovo della diocesi sudanese di El-Obeid, monsignor Yunan Tombe Trille Kuku. Il Sudan ha vissuto 52 dei 65 anni dall’indipendenza sotto controllo militare: la transizione verso un sistema pienamente democratico resta oggi un obiettivo ancora lontano.

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