mercoledì 10 maggio 2017
Fallito il tentativo di dialogo nazionale, i ribelli tornano a minacciare. Fame e sete fanno il resto: 4,9 milioni di persone a rischio. Ma aiutare è sempre più difficile
Bimbi sfollati dal Sud Sudan in un campo profughi dell'Uganda settentrionale (Ansa/Ap)

Bimbi sfollati dal Sud Sudan in un campo profughi dell'Uganda settentrionale (Ansa/Ap)

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Il dialogo è finito. Si passa allo “stato d’allerta bianco”. Quel fragile processo di pace che aveva come obiettivo la riconciliazione del giovanissimo Sud Sudan, teatro di una sanguinosa guerra dal 2013, si è interrotto minacciando un nuovo livello di instabilità. Tra carestie e violenze, il Paese sembra pronto ad esplodere. «Il licenziamento di Paul Malong da parte del presidente Salva Kiir rappresenta una profonda spaccatura per i sudsudanesi – affermano gli esperti in relazione all’allontanamento del capo dell’esercito, martedì scorso –. La tensione continua a salire nella capitale, Juba, e nel resto del territorio». Ieri è stato invece confermato un attacco contro il convoglio del vice-presidente, Taban Deng Gai, sulla sempre più pericolosa strada per Bor, nello Stato centrale di Jonglei.
Sebbene Gai sia rimasto illeso (alla fine ha utilizzato l'aereo per lo spostamento), almeno tre delle sue guardie sono state gravemente ferite. Da quando Kiir, di etnia dinka, ha accusato il suo ex vice-presidente di etnia nuer, Riek Machar, di aver organizzato un tentativo di colpo di Stato, il Sud Sudan è scivolato sempre più giù. Diversi gruppi armati hanno cominciato a lottare per le proprie fette di territorio. Una delle più recenti fazioni di ribelli, chiamata National salvation front (Nsf), ha spiegato che sarebbe pronta a combattere con i militari di Machar contro quelli governativi fatti di “ex colleghi”. «Siamo sicuri che con le poche armi che abbiamo, insieme allo spirito rivoluzionario e al nostro zelo – ha detto alla stampa Thomas Cirillo, ex generale dell’esercito – saremo in grado di sconfiggere le forze di Kiir».
Un comitato per il “dialogo nazionale”, invece, non è stato confermato a causa della presenza di solo il 20 per cento dei suoi membri: «Tutto è in sospeso fino a tempo indeterminato», ha sentenziato Ateny Wek Ateny, portavoce del presidente. Sui continui combattimenti pesa inoltre la carestia, dichiarata lo scorso febbraio per la prima volta dal 2011. Fame e sete stanno seminando un imprecisato numero di vittime. «Circa 4,9 milioni di persone, metà della popolazione, soffrono di insicurezza alimentare – stima la Missione Onu in Sud Sudan (Unmiss) –. Oltre 2 milioni di bambini sono inoltre sfollati o profughi negli Stati limitrofi». I minori che non scappano sono spesso costretti ad arruolarsi nei vari gruppi armati.
Valentin Tapsoba, funzionario dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur), ha commentato dicendo: «È molto triste che siano dei bambini profughi a diventare la faccia di questa emergenza». Circa tre quarti dei minori non possono andare a scuola, la proporzione più grave al mondo. Questa situazione ha prodotto la più grande crisi di rifugiati dal periodo in cui si consumò il genocidio in Ruanda nel 1994. I sudsudanesi fuggono per trovare soccorso soprattutto in Etiopia, Kenya e Uganda. Gran parte di essi, però, muore durante il percorso.
Mentre le organizzazioni umanitarie, il cui personale è sotto una costante minaccia di morte, lamentano il fatto di non poter garantire la sicurezza delle persone che vogliono aiutare poiché loro stesse sono nel mirino delle violenze. «Almeno 82 operatori che lavorano in Sud Sudan sono stati ammazzati dall’inizio del conflitto civile – ha spiegato Eugene Owusu, il coordinatore Onu per gli affari umanitari –. Per la prima volta il Paese ha sorpassato l’Afghanistan diventando il luogo in cui si fanno più attacchi al mondo contro gli operatori: solo nel 2015 ce ne sono stati 31». Invece, sono almeno 111 gli attacchi che hanno coinvolto le agenzie degli aiuti da quando scoppiarono le prime violenze.

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