giovedì 18 luglio 2013
Per l’ambasciata americana, governo ed esercito non stanno proteggendo i civili, vittime degli scontri tra gruppi lou nuer e murle Cento i feriti negli ultimi giorni. Le autorità di Juba continuano a vietare il completo accesso nella zona alle agenzie umanitarie. Dal 2011 oltre 1.600 i morti nei combattimenti tra le due comunità.
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«Che Dio benedica i lou nuer! Vi prego lou nuer, andate avanti e uccidete tutta la comunità Murle». È questo il tono di molti commenti pubblicati dal Sudan Tribune, sito d’informazione sudanese, rispetto alle violenze nello Stato di Jonglei, Sud Sudan. La situazione è tanto tesa che gli Stati Uniti, per la prima volta, hanno dichiarato pubblicamente la settimana scorsa che «il governo sud-sudanese ha fallito nel proteggere i civili». L’ambasciata americana ha sottolineato in una nota che «la mancanza d’azione nel proteggere le popolazioni nel Jonglei è un’abdicazione della responsabilità da parte dell’esercito sud-sudanese (Spla) e del governo civile». Sono infatti sempre più preoccupanti le notizie, per il momento ancora scarse e impossibili da verificare, che arrivano dal più grande Stato del Sud Sudan. Sebbene le dinamiche siano complesse, una cosa è certa: da quando è iniziata una nuova ondata di violenze in Jonglei nel 2011, sono state almeno 1.600 le vittime dei combattimenti tra le comunità dei lou nuer e dei murle. «Siamo estremamente preoccupati per il destino dei civili e degli scontri», ha detto ad Avvenire Jehanne Henry, ricercatrice dell’organizzazione internazionale Human Rights Watch (Hrw): «Sollecitiamo sia il governo sia la missione Onu a onorare il loro impegno nel fornire sicurezza alla popolazione civile». La squadra di Hrw, appena tornata da una missione nella capitale Juba, non ha usato il termine «pulizia etnica» (utilizzato invece in un recente rapporto confidenziale dell’Onu) per ciò che sta succedendo lontano dai riflettori della stampa, ma ammette che «la situazione è davvero peggiorata negli ultimi due anni da un punto di vista di diritti umani». La ribellione di David Yau Yau, un murle, che sostiene di aver vinto le ultime elezioni amministrative in Jonglei nel 2010, è solo la punta dell’iceberg. Con l’intensificarsi dei combattimenti tra murle, nuer ed esercito regolare, l’Spla ha avviato una controversa operazione di disarmo che, secondo varie organizzazioni per i diritti umani, ha infiammato gli animi. Questa settimana, oltre 100 feriti della popolazione nuer sono stati trasferiti dalla provincia di Pibor, epicentro degli scontri, all’ospedale di Bor, capitale dello Stato. I racconti di uccisioni e saccheggi sono terribili, ma difficili da verificare poiché il governo di Juba continua a vietare il completo accesso alle agenzie umanitarie. Le autorità non vogliono intromissioni. Il teatro di queste drammatiche violenze coincide infatti con la più promettente regione petrolifera del Sud Sudan. Le esplorazioni, ostacolate per circa venticinque anni dalla guerra civile tra Nord e Sud, potrebbero fruttare miliardi di dollari. «Da tempo sono in corso importanti riunioni per accordarsi sui futuri proventi del petrolio – afferma sotto anonimato un ex ufficiale sud-sudanese – da Jonglei dovrebbe partire l’unico oleodotto in grado di raggiungere il Kenya e permettere l’esportazione di greggio verso l’Asia». Dall’indipendenza, infatti, il Sud Sudan sta disperatamente cercando un’alternativa all’esportazione del suo petrolio che da anni passava verso nord, attraverso il Sudan. Ma i due Paesi sono ai ferri corti e si accusano di fomentare le rispettive ribellioni che stanno uccidendo un numero imprecisato di civili.

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