lunedì 11 marzo 2013
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​Aiutare o non aiutare? Questo è il dilemma che si apre ogni qualvolta una catastrofe – carestie, guerre, povertà croniche – colpisce il Sud del mondo. Tra chi pensa che una mega-iniezione di denaro estero sia la panacea di tutti i mali e chi attribuisce allo tsunami della generosità verde-dollari la causa del perpetuarsi del sottosviluppo – l’economista africana Dambisa Moyo e la reporter Linda Polman sono forse gli esempi di estremi – si collocano gli studiosi che denunciano i possibili danni collaterali dell’assistenza senza rinunciare a priori a “tendere la mano”. «Il problema non è se ma come aiutare – spiega Mauro Cereghini, collaboratore del Centro per la formazione alla solidarietà internazionale di Trento e autore, insieme a Mauro Ceresoli, dello stimolante saggio sulla cooperazione, Darsi tempo (Emi). – All’idea di “dare il pesce”, si sostituisce spesso quella, ugualmente fuorviante, di “insegnare a pescare”. La cooperazione non è un trasferimento di competenze o di modelli da un punto all’altro del pianeta. È la costruzione di reciprocità positive tra luoghi. Ciò implica individuare partner locali con cui stringere alleanze e trovare insieme le soluzioni». Lo sviluppo, dunque, nasce dal confronto con le comunità locali che cessano di essere meri destinatari di assistenza. «Per questo ci vuole tempo. Spesso, invece, i bandi per accedere alle risorse impongono alle organizzazioni risultati immediati – aggiunge Giorgio Gallo, esperto dell’Università di Pisa. – Queste avviano, così, dei veri e propri “progettifici”, studiati in base alle logiche dei donatori. Che sono differenti da quelle della realtà in cui si va ad operare». Naturale, dunque, che non funzionino. A portare un esempio illuminante è Giuseppe Folloni, economista dell’Università di Trento e consulente di vari progetti di sviluppo. Tra i tanti casi seguiti c’è quello di Ribeira Azul, una delle baraccopoli più degradate di Salvador de Bahia, in Brasile. «Le baracche erano palafitte. Negli anni Novanta, il governo ha deciso di distruggerle e costruire un nuovo quartiere per gli abitanti. Alla prima crisi, però – malattia, morte di un familiare, perdita del lavoretto saltuario – la gente vendeva l’abitazione e si ricostruiva una capanna nella Ribeira», spiega lo studioso. In dieci anni, la baraccopoli è rispuntata. «La cooperazione nasce dall’incontro con una persona a cui offri opportunità. Che non è un bene materiale ma la possibilità di una vita differente. È quello che abbiamo fatto con gli abitanti di Ribeira Azul, a cui abbiamo proposto, oltre alle case nuove, sostegno perché potessero migliorare la loro esistenza. Dunque, un centro nutrizionale, un asilo, dei corsi di formazione». Risultato: tra il 2003 e il 2006 la baraccopoli è scomparsa. Per uno che sparisce, però, ogni giorno, nuovi slum si aprono come ferite per le periferie urbane del Sud del mondo. E Haiti resta povera nonostante i miliardi post-sisma. Perché? «Si è diffusa un’idea romantica degli aiuti – dice il pluripremiato giornalista David Rieff, autore del saggio Un giaciglio per la notte, il paradosso umanitario (Carocci). – Si pensa che possano risolvere tutti i problemi. Non è così. Ritengo che Bill Clinton fosse sincero quando ha promesso una nuova Haiti in breve. Le sue aspettative, però, erano esagerate. Gli aiuti sono solo una parte della soluzione: lo Stato e la società locale, devono fare il resto».
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