lunedì 23 luglio 2012
​A tre giorni dall'accaduto nessuno evoca soluzioni per prevenire nuove violenze. Dall’eccidio al liceo Columbine di 13 anni fa nulla è cambiato  e la «lobby del fucile»  è diventata più potente Per i media a colpire sono «lupi solitari».
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Tredici anni fa, a venti minuti dal cinema dove James Holmes ha trovato i suoi orrendi – ma negli Usa ormai obbligatori – 15 minuti di fama, due studenti abbattevano a raffiche di mitra 12 compagni al liceo Columbine come in un videogioco. Lo choc diede il via negli Stati Uniti a un dibattito sul legame fra violenza e cultura giovanile e fra sicurezza e il diritto di ogni cittadino americano di avere una pistola in tasca. Da allora, quasi nulla è cambiato nelle leggi che regolamentano il porto d’armi negli Usa, nemmeno dopo il massacro di 32 persone a Virginia Tech nel 2007. Forse è per questo che all’indomani di un’altra tragedia della deriva dell’individualismo, negli Stati Uniti si è sentito parlare così poco di cause e di riforme.Il silenzio sa di rassegnazione e anche di convenienza. Nel suo discorso sulla tragedia, Barack Obama ha invitato i concittadini alla «preghiera e alla riflessione» e ha definito il massacro un «atto casuale e imprevedibile». Nessun cenno ai modi, che esistono, di rendere incubi del genere se non prevedibili, certo prevenibili. E nemmeno al fatto che ad essere casuale è il quando, non il se. Perché finché ci saranno fucili semiautomatici nelle mani di folli, e finché le università e i posti di lavoro incoraggeranno il completo isolamento delle persone più fragili, ci saranno stragi «insensate».Nel 2008 il giovane senatore dell’Illinois si era presentato alla corsa per la presidenza difendendo, almeno, la messa al bando dei mitra d’assalto, abrogata nel 2004 da George W. Bush. Ma negli ultimi quattro anni il discorso nazionale sul bisogno di difendere i diritti della comunità rispetto a quelli dell’individuo si è spostato a destra.Nel frattempo la National rifle association (dove “rifle” vuol dire fucile) si è mobilitata al punto da trasformarsi in una delle lobby più potenti della storia americana. La tendenza è chiara anche nei numeri: nel 1990 l’80% degli americani era favorevole a limitare l’accesso alle armi. Oggi la percentuale si è dimezzata. Intanto è scesa a un terzo la fetta dei genitori che sa cosa fanno i loro figli adolescenti su Internet, o dove vanno quando escono, in base al principio che, a 14 anni, «hanno diritto alla loro privacy».Così i candidati alla Casa Bianca questa volta non parlano di regole, ma di sentimenti, come ha fatto notare il sindaco di New York Michael Bloomberg che li ha accusati di non aver ancora rivelato la loro posizione sul controllo delle armi. «Oggi è il giorno di pensare a quanto amiamo gli uni gli altri», si è limitato a dire il repubblicano Mitt Romney, per una volta in perfetta sintonia con l’avversario.Giornali e tv, intanto, con la limitata eccezione del New York Times, ricorrevano a frasi di circostanza come «la strage risolleva la questione del commercio delle armi e dell’esistenza di lupi solitari in mezzo a noi». Quasi questi fossero mostri in abiti da pecora, nati dal nulla e impossibili da individuare o da disarmare finché non rivelano la loro vera natura. Ma non è così, se le prime parole della madre dell’assassino di Denver, contattata dalla polizia, sono state: «Avete la persona giusta».L’America sembra anestetizzata alle notizie di nuove sparatorie. Quarantott’ore, e si parla d’altro. Non certo di fare controlli approfonditi su chi vuole comprare una pistola, né di dare alle università il diritto di convocare i genitori in caso di segni di squilibrio di uno studente, perché sarebbe una violazione dei diritti dei ragazzi.È deprimente allora il tono rinunciatario delle associazioni americane che lottano per ottenere leggi restrittive sul porto d’armi. «Andiamo avanti, da una tragedia all’altra – diceva ieri Tom Mauser del gruppo “Cessate il fuoco” – ma siamo in un anno elettorale, quindi non abbiamo speranza di cambiare qualcosa».
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