sabato 28 novembre 2015
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«I want you alive, baby, io ti voglio vivo, bambino... ». È la frase che l’ostetrica Esther Madudu ripete più volte al giorno, quasi come una preghiera, mentre aiuta una donna nel travaglio del parto e sorregge la testolina di un neonato che sta per affacciarsi alla vita. Quando il piccolo inizia a respirare e la madre a riprendersi, Esther schiude le labbra in un sorriso che rischiara la stanza del piccolo ospedale del distretto di Katine, villaggio rurale dell’Uganda, quasi al confine col Kenya: «Lavoro affinché il bimbo e la madre sopravvivano entrambi. In certe zone del mondo quel rischio di morte è contenuto, ma non qui...». Secondo le statistiche, in questa regione dell'Africa una donna su 40 rischia di morire in gravidanza o durante il parto per infezioni, emorragie o ipertensione (situazioni prevenibili o curabili in Europa, dove quel rischio c’è in un caso su 3.300). Oggi Esther ha 35 anni, spalle larghe e braccia solide come i rami delle acacie locali, ma anche lei aveva rischiato di non farcela: «Debbo la vita a mia nonna, anche lei ostetrica, che salvò me e mia madre quando nacqui prematura, di soli 900 grammi». Un dono che lei ha ricompensato con un impegno straordinario, facendo nascere negli ultimi 15 anni «migliaia di bambini», con una media di «4-5 parti al giorno».

Lavora nell’Atiriri Health Centre IV, una struttura pubblica con 34 posti letto, un centinaio di pazienti giornalieri in visita ambulatoriale e un bacino di 6-7mila donne che arrivano dai villaggi vicini: «Siamo in pochi e lavoriamo giorno e notte. Spesso non ho tempo di mangiare. E non sempre riesco a vedere i miei figli, che vivono con mia madre a Pallisa, nell'est dell’Uganda. Sono un po’ arrabbiati con me perché lavoro troppo...». L’impegno di Esther non è limitato al momento del parto: ci sono i servizi prenatali e le cure neonatali; la consulenza alle madri sieropositive e la prevenzione della trasmissione dell’Aids: «Dovremmo dare assistenza domiciliare alle madri sieropositive, ma non riusciamo ad allontanarci dall’ospedale. Alcune non prendono i farmaci previsti, mettendo i neonati a rischio d’infezioni». Nell’ospedale, ogni giorno è una scommessa. I cavi elettrici, tranciati anni fa da guerriglieri locali, non sono stati riparati: «Siamo in una zona rurale. L’ospedale non è recintato, i pannelli solari non funzionano e l’elettricità manca. Ci siamo inventati una sorta di "incubatrice naturale". E nel reparto maternità mi è capitato di usare la luce del mio cellulare per illuminare da dove esce il bambino o da dove proviene un’emorragia...». Al fianco di Esther c’è l’African medical and research foundation (Amref) che ha contribuito alla sua formazione e l’ha voluta come ambasciatrice della campagna «Mai più senza mamma», che insieme ad altre iniziative ha formato dal 2010 7mila ostetriche africane, ognuna delle quali assiste 500 donne l'anno: «Sono fiera di poter attirare l’attenzione sulla situazione delle madri africane, che hanno bisogno di ostetriche e assistenza adeguata».

Lei stessa ha sofferto sulla propria pelle la carenza di cure, perdendo un bambino nel 2007: «L’ostetrica di turno era in una riunione. Ho visto il mio bimbo appena nato respirare a fatica, non c’era nessuno che potesse mettere in atto le manovre di rianimazione. Ho provato ad allattarlo, ma è morto tra le mie braccia», ricorda con sofferenza. Da quel momento, ha speso tutto il suo tempo affinché altre madri non vivessero quell’esperienza. «Oltre alle nozioni apprese alla scuola infermieri, Amref mi ha formato su altre competenze: dalla gestione di casi gravi di malaria in gravidanza, alle vaccinazioni o alle complicazioni post parto, in modo da poter tutelare la maggior parte delle gravidanze, anche difficili». Per il suo impegno, nel 2013 e nel 2014 Esther è stata candidata al premio Nobel per la pace, ma nel colloquio con "Avvenire" non ne fa mai menzione. L’umiltà, la tenacia e il sorriso compongono la sua cifra esistenziale. E il suo faticoso lavoro quotidiano è un inno alla vita, un battito del cuore pulsante di quell'Uganda che sta per abbracciare Papa Francesco. Anche lei lo attende con gioia: «Vorrei chiedergli di incoraggiare il lavoro di formazione degli operatori sanitari nel nostro Paese e di supportare l’azione del governo ugandese in questo campo. Confido che, anche grazie alla sua visita, molte cose possano migliorare».
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