giovedì 23 febbraio 2012
Oggi a Londra si apre la Conferenza sul Paese, segnato da vent’anni di anarchia e massacri. Il capo della Farnesina, tra i promotori del summit internazionale, in un'intervista ad Avvenire si dice convinto che «l’esperienza del Governo transitorio sia finita». L’obiettivo: «Un sistema ragionevolmente democratico e rappresentativo dell’intera società».
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La domanda non poteva non essere fatta, anche se Giulio Terzi ha scelto da giorni di non parlarne pubblicamente tranne l’audizione di ieri in Commissione esteri. Ed è legata alla vicenda dei due marò arrestati in India con l’accusa di aver ucciso due pescatori del Kerala scambiati per pirati. Il collegamento è inevitabile però anche ai pirati somali, perché oggi il ministro degli Esteri sarà uno dei protagonisti della Conferenza di Londra proprio sulla Somalia.È così intricata la vicenda del Kerala?Noi stiamo facendo ogni sforzo. Abbiamo attivato tutti i canali per lavorare pragmaticamente a una soluzione. Ho deciso di inviare il sottosegretario De Mistura a New Delhi e lì, in queste ore, si recherà anche nello Stato di Kerala. L’obiettivo urgente è riportare i militari italiani alle loro famiglie. Ho parlato ieri con i genitori di uno dei due soldati. Li ho rassicurati sull’assoluta determinazione del governo e mia personale per risolvere con rapidità questo caso. Martedì andrò a New Delhi, per un invito giunto dal governo nelle scorse settimane. Ma se la questione non sarà risolta sarà anche questo argomento dei colloqui.Recentemente sì è risolto un altro caso legato a una nave italiana, la Savina Caylyn, sequestrata nel Golfo di Aden…La tutela dei nostri militari all’estero e di tutti i connazionali all’estero è una priorità assoluta. Come gli episodi di sequestro di equipaggi italiani o di connazionali che operano in diverse parti del mondo per le organizzazioni di volontariato. E abbiamo acquisito una grande esperienza in questa materia, con risultati positivi per esempio negli ultimi tre mesi. Ma questo è un caso a sé perché c’è una posizione indiana che afferma una giurisdizione di quel Paese per la nazionalità delle vittime, anche se l’incidente è avvenuto in alto mare e l’affermazione italiana che la giurisdizione è appunto del nostro Paese, perché tutte le norme di diritto internazionale prevedono questo. Anche in Somalia il ginepraio diplomatico non è niente male. Oggi a Londra dovrebbe essere decretata la fine del Governo di transizione somalo, dopo otto anni e mezzo di liti, guerre interne, massacri. Con governo e un presidente con poteri ristretti a pochi quartieri di Mogadiscio, legittimati da una presenza militare straniera e con un Parlamento in esilio. È una realtà amara. Crede veramente che si possa riempire questo buco nero lungo vent’anni?Quando l’Italia era in Consiglio di sicurezza Onu, a metà degli anni Novanta, ogni volta che cercavamo di riportare il dossier Somalia all’attenzione del Consiglio (era ancora calda la tragica fine della missione americana), ci scontravamo con l’opposizione di tutta una serie di Paesi. Al punto che noi l’avevamo ribattezzata «The forgotten country» (il Paese dimenticato): un buco nero nella geopolitica del Palazzo di Vetro sull’Africa Orientale. Non potevamo accettarlo e abbiamo lavorato affinché la questione somala riacquistasse evidenza. Credo che aver costruito e mantenuto questa priorità sia stato, sinora, un successo per la diplomazia italiana. Purtroppo non è bastato per uscire da una crisi ormai endemica. E che cosa potrà uscire invece da Londra?Ho tratto motivi di incoraggiamento dall’incontro, quindici giorni fa qui a Roma, con il primo ministro somalo Abdiweli Mohamed Ali. Ho trovato molta convinzione a perseguire il principio di Garaowe (la Conferenza di due mesi fa in Puntland che ha attivato la “road map” somala, (ndr). Questo mi fa ritenere che si sia passati ormai a una fase costituente. Il premier ci ha assicurato che creeranno una nuova Assemblea dove si avrà non solo una somma algebrica dei clan, delle fazioni e dei signori della guerra, ma aperta ad elementi più rappresentativi della società somala. Credo che l’esperienza della transizione sia finita.Ne sono convinti anche loro?Mi sembrano convinti. D’altra parte il documento che uscirà da Londra chiarirà questo aspetto: ormai si è giunti a un punto di non ritorno. Sarà un momento di consapevolezza da parte degli stessi somali che vi parteciperanno. È un orizzonte nuovo che si apre, ma che richiede un’attuazione rapida degli impegni. L’impressione positiva che ho avuto dal nuovo primo ministro credo motivi un’apertura di credito nei suoi confronti. E l’utilità di questa conferenza è proprio quella di far vedere che è un punto di non ritorno la costituzione di un sistema ragionevolmente democratico e rappresentativo dell’intera società somala. Dico ragionevolmente perché abbiamo visto in tante parti del mondo che quando si passa ad elezioni bisogna tener conto delle difficoltà.Con i ribelli al-Shabaab grandi assenti in Gran Bretagna bisognerà però fare i conti… Per certi versi potrebbe disegnarsi un aspetto simile a quello afghano?Innanzitutto è importantissimo acquisire un dialogo con i leader della regione: l’Eritrea, lo Yemen e tutti i Paesi del Corno d’Africa. Creare un contributo positivo dell’Etiopia, del Kenya. Ma anche Egitto e Sudan. Il tema del coinvolgimento degli shabaab in un quadro di stabilità somala, è vero, somiglia a quel travagliato percorso di dialogo fra il governo di Kabul e l’insorgenza dei taleban. Ma lì sappiamo che ci sono Paesi che hanno fortissime resistenze. Anche per gli shabaab ci sono sensibilità diverse fra i Paesi che partecipano alla Conferenza: c’è chi sostiene l’utilità di avviare qualche forma di dialogo, almeno con le componenti che sono meno jihadiste, ma vi è anche un numeroso gruppo di Paesi che è estremamente preoccupato da questa forma di apertura in quella direzione.Chi sono?Beh, sono Paesi che sono anche i più operativi sul piano dell’anti-terrorismo e forse hanno anche conoscenze maggiori di altri su quella che è la presenza del jihadismo nel fronte degli shabaab. Io credo che questa conclamata alleanza fra al-Shabaab e al-Qaeda, ribadita in questi giorni, sia un elemento voluto dagli jihadisti per creare ulteriori complicazioni. Non so però se da Londra possa uscire una linea chiara sul dialogo. Noi speriamo però ci sia un’erosione della loro tenuta: nel momento in cui iniziano a perdere terreno fisicamente sul fronte militare, sappiamo che l’ambiente clanico somalo cambia linea facilmente. Non è un’insorgenza irreversibile.La Somalia è però soprattutto carestia…Il pilastro dello sviluppo è il terzo, non certo in ordine di importanza, dalla Conferenza. E un punto di passaggio per l’ulteriore conferenza sullo sviluppo che si terrà a Istanbul. Quindi ci saranno appuntamenti ravvicinati incentrati sui temi dello sviluppo e della carestia e della sostenibilità di un’economia somala che deve partire. Il tema della fame è per noi importante, nonostante le gravissime carenze che abbiamo nel finanziamento dei fondi per la cooperazione e lo sviluppo. Non possiamo certo negarlo, anzi sottolineare questo aspetto: la disponibilità della nostra azione bilaterale è caduta a picco negli ultimi quattro, cinque anni. Ma ciò nonostante la Somalia è sempre stato il Paese di destinazione dei nostri aiuti, sia per le emergenze che per l’assistenza alimentare. Siamo impegnai sia su questo piano che per l’aiuto alla promozione dei diritti umani, a sostegno della condizione della donna con l’attenzione ad alcune forme particolarmente tragiche, determinate da tradizioni locali, come quello delle mutilazioni genitali femminili.
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